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Giurisprudenza |
CORTE COSTITUZIONALE, 10 maggio 2002, n. 173 – Presidente Vari – Relatore Neppi Modona
Non sono costituzionalmente illegittimi per eccesso di delega gli artt. 2 e 127 del T.U. dei beni culturali ed ambientali, in quanto è solo apparente, ma non reale, la modificazione alle disposizioni penali della legge n. 1062/71, che non risultano ristrette nella loro portata applicativa (in particolare, la punibilità non è esclusa in relazione ad opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre 50 anni)
(Omissis) RITENUTO IN FATTO
1. – Il Tribunale di Piacenza
ha sollevato, con riferimento all’art. 76 della Costituzione, questione
di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6, del decreto
legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative
in materia di beni culturali e ambientali), in relazione all’art. 1 della
legge-delega 8 ottobre 1997, n. 352 (Disposizioni sui beni culturali), e all’art.
127 dello stesso decreto.
Il rimettente
– premesso di procedere nei confronti di due persone imputate dei reati
di cui agli artt. 110 del codice penale, 3 e 4 della legge 20 novembre 1971,
n. 1062 (Norme penali sulla contraffazione od alterazione di opere d’arte),
per avere, in concorso tra loro, fatto commercio o, comunque, detenuto per il
commercio, opere contraffatte di vari pittori piacentini, nonché nei
confronti di altra persona, imputata del reato di cui all’art. 4, numeri
1) e 2), della stessa legge, per aver autenticato le predette opere d’arte
– rileva che nelle more del procedimento è intervenuto il decreto
legislativo n. 490 del 1999, emanato ai sensi dell’art. 1 della legge-delega
n. 352 del 1997, nel quale sono state inserite, tra le altre, sia le disposizioni
della legge 1° giugno 1939, n. 1089 (Tutela delle cose di interesse artistico
e storico), sia le disposizioni della legge 20 novembre 1971, n. 1062, leggi
che sono state contestualmente abrogate dall’art. 166 del medesimo decreto.
In particolare,
pur avendo l’art. 127 del decreto legislativo n. 490 del 1999 riprodotto
le disposizioni già contenute negli articoli da 3 a 7 della legge n.
1062 del 1971, l’ambito di applicazione della nuova normativa non sarebbe
affatto sovrapponibile alla precedente: mentre infatti la disciplina originaria
prevedeva come illecito penale la messa in commercio o la detenzione a fini
commerciali ovvero l’autenticazione di qualsiasi opera di pittura, scultura
o grafica contraffatta o alterata, a prescindere e indipendentemente dall’epoca
in cui l’opera fosse stata realizzata o dal fatto che il suo autore fosse
vivente o meno, l’art. 2, comma 6, del testo unico n. 490 del 1999, riprendendo
testualmente la disposizione dell’art. 1, terzo comma, della legge n. 1089
del 1939, prevede espressamente che «non sono soggette alla disciplina
di questo titolo, a norma del comma 1, lettera a), le opere di autori viventi
o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni». Ne consegue,
secondo il rimettente, che tali opere «vengono ad essere escluse dall’ambito
di operatività del testo unico», e segnatamente dalla disciplina
concernente le sanzioni penali, prevista dall’art. 127.
Il giudice a quo ritiene che la modifica
della sfera di applicazione della legge n. 1062 del 1971 sia sostanziale e quindi
non autorizzata dai principi e criteri direttivi della legge-delega n. 352 del
1997, il cui art. 1, comma 2, lett. b), prevede che alle disposizioni inserite
nel testo unico «devono essere apportate esclusivamente le modificazioni
necessarie per il loro coordinamento formale e sostanziale, nonché per
assicurare il riordino e la semplificazione dei procedimenti». La norma
censurata si porrebbe quindi in contrasto con il disposto dell’art. 76
Cost.
Considerato
inoltre il tenore letterale delle richiamate disposizioni della disciplina dei
beni culturali, il rimettente ritiene che l’art. 127 del testo unico non
«possa essere interpretato in modo da estenderne l’ambito di applicazione
al di là dei chiari limiti posti dal citato art. 2, comma 6».
Quanto alla
rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che, qualora la disciplina
censurata fosse ritenuta conforme a Costituzione, gli imputati «dovrebbero
essere sicuramente assolti perché il fatto non è (più)
previsto dalla legge come reato con riferimento, quanto meno, alla stragrande
maggioranza» dei falsi loro contestati. Ove, invece, la norma fosse ritenuta
costituzionalmente illegittima, «occorrerebbe procedere a un approfondito
esame della posizione degli imputati con riferimento a ciascuno dei quadri oggetto
di contestazione».
2. –
Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo
che la questione venga dichiarata infondata.
L’Avvocatura
rileva che il rimettente muove da una non condivisibile interpretazione delle
disposizioni censurate, la cui esatta lettura dovrebbe essere nel senso che
gli illeciti concernenti le opere di autori viventi o la cui esecuzione non
risalga a oltre cinquanta anni sono tuttora sanzionati penalmente ai sensi dell’art.
127 del decreto legislativo n. 490 del 1999, che in nulla avrebbe modificato
la disciplina previgente. Secondo l’Avvocatura, infatti, il decreto legislativo
si sarebbe limitato a riprodurre nell’art. 127 gli artt. 3 e 4 della legge
n. 1062 del 1971, come peraltro confermato dall’art. 166 dello stesso testo
unico che, nell’abrogare la legge n. 1062 del 1971, prevede che rimanga
in vigore l’art. 9 che, nel secondo comma, fa obbligo al giudice, nei processi
per contraffazione di opere d’arte moderna e contemporanea, di assumere
sempre come testimone l’autore cui l’opera è attribuita, rendendo
così evidente la volontà del legislatore di non escludere tali
opere dalla tutela penale prevista dall’art. 127 del testo unico.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. –
Il rimettente, chiamato a giudicare alcuni soggetti imputati dei reati di cui
agli artt. 110 del codice penale, 3 e 4, comma 1, numeri 1) e 2), della legge
20 novembre 1971, n. 1062 (Norme penali sulla contraffazione od alterazione
di opere d’arte), per avere fatto commercio o, comunque, detenuto per il
commercio, opere contraffatte di pittori contemporanei, e per avere autenticato
tali opere, rileva che nelle more del giudizio è entrato in vigore il
decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni
legislative in materia di beni culturali e ambientali), il cui art. 2, comma
6, avrebbe escluso dalla sfera di applicazione delle norme incriminatrici «le
opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni».
Ad avviso del giudice a quo la nuova disciplina
si pone in contrasto con l’art. 76 della Costituzione, in quanto il legislatore
delegato, nel riunire e coordinare nel testo unico, emanato in forza dell’art.
1 della legge-delega 8 ottobre 1997, n. 352 (Disposizioni sui beni culturali),
le disposizioni legislative vigenti in materia di beni culturali e ambientali,
si sarebbe dovuto limitare, alla stregua del comma 2, lettera b), del predetto
art. 1, «ad apportare esclusivamente le modificazioni necessarie per il
loro coordinamento formale e sostanziale, nonché per assicurare il riordino
e la semplificazione dei procedimenti».
2. –
La questione è infondata.
3. –
Il testo unico n. 490 del 1999 è diviso in due titoli, dedicati, rispettivamente,
ai beni culturali e ai beni paesaggistici e ambientali; nel Titolo primo sono
inserite, tra l’altro, sia le disposizioni della legge 1° giugno 1939,
n. 1089, sulla tutela delle cose di interesse artistico e storico, sia le norme
incriminatrici della legge n. 1062 del 1971, relative alla contraffazione delle
opere d’arte, ora contenute nell’art. 127, sotto la rubrica “Contraffazione
di opere d’arte”.
La legge
n. 1089 del 1939, trasfusa nel testo unico, recava la disciplina generale dei
beni culturali e apprestava le varie forme di tutela del patrimonio storico,
archeologico e artistico nazionale. La legge, tra l’altro, classificava
i beni culturali e definiva le condizioni per la relativa dichiarazione di interesse
culturale, individuava i vincoli da apporre ai beni ritenuti di rilevante o
eccezionale interesse culturale, anche ai fini di assicurarne la conservazione
e l’integrità, stabiliva divieti e limiti alla loro alienazione
– tra cui il diritto di prelazione in favore dello Stato –, determinava
le sanzioni in caso di violazione della disciplina vincolistica. In particolare,
l’art. 1, terzo comma, stabiliva che «non sono soggette alla disciplina
della presente legge le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga
ad oltre cinquanta anni».
La limitazione
della sfera di applicazione della legge venne giustificata sia nella Relazione
che accompagna il testo legislativo, sia dalla dottrina, in base alle esigenze
di non estendere ad opere di autori viventi o di recente esecuzione una disciplina
vincolistica che ne avrebbe impedito o comunque notevolmente ostacolato le possibilità
di commercializzazione e di utilizzazione economica e di evitare giudizi affrettati
sul valore delle opere, che avrebbero potuto essere modificati dal trascorrere
del tempo.
La legge
n. 1089 del 1939 non dettava alcuna disciplina sulla contraffazione delle opere
d’arte, che, a seconda dei casi, veniva ricondotta dalla giurisprudenza
nell’ambito dei reati di truffa, falsità in scrittura privata, frode
nell’esercizio del commercio, ovvero delle fattispecie incriminatrici previste
dalla legge sul diritto d’autore.
In tale contesto normativo è intervenuta la legge n. 1062 del 1971 che
ha sanzionato penalmente la condotta di chi «contraffà, altera
o riproduce un’opera di pittura, scultura o grafica, od un oggetto di antichità
o di interesse storico od archeologico».
Il legislatore
del 1971 si è mosso in una prospettiva del tutto autonoma rispetto alle
finalità di tutela del patrimonio artistico nazionale perseguite dalla
legge del 1939: a prescindere dal formale riconoscimento dell’interesse
culturale e dal valore artistico dell’opera, la legge si pone l’obiettivo
di tutelare l’interesse dell’autore alla salvaguardia della genuinità
della propria produzione, nonché l’interesse generale alla regolarità
e correttezza degli scambi commerciali nel mercato delle cose d’arte, senza
alcun richiamo alla normativa del 1939.
Al riguardo,
la giurisprudenza di legittimità e la dottrina avevano ritenuto che i
limiti posti dall’art. 1, terzo comma, della legge n. 1089 del 1939 alla
sfera di applicazione della legge medesima fossero funzionali alla protezione
del patrimonio storico e artistico nazionale e che non potessero pertanto estendersi
alla disciplina prevista della legge n. 1062 del 1971, diverse essendo le esigenze
di tutela connesse alla repressione della contraffazione di qualsiasi opera
d’arte, anche contemporanea.
Nella compilazione
del testo unico n. 490 del 1999, gli artt. 3, 4, 5, 6 e 7 della legge n. 1062
del 1971, relativi alla contraffazione, al commercio e alla autenticazione di
opere d’arte, o di oggetti di antichità o di interesse storico o
archeologico contraffatti o alterati, sono stati riprodotti nell’art. 127.
L’art. 166 del testo unico ha poi provveduto ad abrogare la legge n. 1062
del 1971, ad eccezione degli artt. 8, secondo comma, e 9, il cui secondo comma
stabilisce che nei procedimenti penali per contraffazione di opere d’arte
moderna e contemporanea il giudice è tenuto ad assumere come testimone
l’autore cui l’opera è attribuita o di cui l’opera stessa
rechi la firma.
4. –
Le ragioni che giustificano la diversa sfera di applicazione delle due leggi
trasfuse nel Titolo primo del testo unico non consentono di condividere l’interpretazione
della disciplina censurata posta dal rimettente a base della questione di legittimità
costituzionale.
La formulazione
dell’art. 2, comma 6, del Titolo primo del testo unico n. 490 del 1999,
secondo cui – con riferimento al comma 1, lettera a), che indica tra i
beni culturali disciplinati dal testo unico «le cose immobili e mobili
che presentano interesse artistico, storico, archeologico o demo-etno-antropologico»
– non sono soggette «alla disciplina di questo Titolo […] le
opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga a oltre cinquanta anni»,
è frutto della meccanica trasposizione della esclusione che figurava,
espressa nei medesimi termini, nell’art. 1, terzo comma, della legge n.
1089 del 1939, ove era però riferita alla disciplina della «presente
legge», che a differenza dell’attuale testo unico era dedicata esclusivamente
alla tutela dei beni culturali, definiti come «cose di interesse storico
e artistico».
Al di là
di questo dato di carattere testuale, quel che importa soprattutto tenere presente
è che la legge n. 1089 del 1939 non prevedeva, come già detto,
alcuna disciplina penale sulla contraffazione delle cose di interesse storico
o artistico.
Appare dunque
evidente che si è in presenza di un mero difetto di coordinamento formale
tra l’originario testo della legge n. 1089 del 1939 e l’impianto del
Titolo primo del testo unico, come d’altronde emerge dalla constatazione
che il legislatore delegato si è limitato a riprodurre il contenuto delle
fattispecie incriminatrici già previste dagli artt. da 3 a 7 della legge
n. 1062 del 1971, senza apportarvi alcuna modifica sostanziale, nel pieno rispetto
dei criteri direttivi posti dall’art. 1, comma 2, lettera b), della legge-delega
n. 352 del 1997, che lo legittimava ad apportare esclusivamente «le modificazioni
necessarie per il [...] coordinamento formale e sostanziale» delle disposizioni
legislative vigenti (nel senso che nell’interpretazione della legge delegata
va privilegiato il criterio della conformità alla legge di delegazione,
v., da ultimo, sentenze n. 96 del 2001, n. 425 e n. 276 del 2000).
L’intento
di rispettare i limiti posti dalla delega risulta espresso nella stessa Relazione
allo schema del testo unico, ove si precisa che le disposizioni penali riproducono
quelle previste dalla legge n. 1062 del 1971 in materia di contraffazione di
opere d’arte e che «l’unica modifica, sulla base del criterio
del coordinamento sostanziale posto dalla legge-delega, riguarda l’adeguamento
della disciplina alle norme del codice penale in tema di pene accessorie (commi
2 e 3)».
La necessità
di aderire ad una interpretazione logico-sistematica degli artt. 2, comma 6,
e 127 del decreto legislativo, suggerita dalle rispettive sfere di applicazione
delle due leggi n. 1089 del 1939 e n. 1062 del 1971, quali erano state individuate
prima della trasfusione nel Titolo primo del testo unico, trova infine conferma
nell’espressa esclusione dall’abrogazione dell’art. 9, comma
2, della legge del 1971: non avrebbe infatti alcuna ragione continuare a prevedere
che il giudice debba assumere come testimone l’autore a cui è attribuita
l’opera d’arte contraffatta se le fattispecie incriminatrici contenute
nell’art. 127 non si riferissero anche alle opere di autori viventi.
Si deve pertanto
concludere che le norme incriminatrici relative alla contraffazione, al commercio
e alla autenticazione di opere d’arte contraffatte o alterate, contenute
nella legge n. 1062 del 1971 e trasfuse nell’art. 127 del decreto legislativo
n. 490 del 1999, continuano ad applicarsi anche alle opere di autori viventi
o la cui esecuzione non risalga a oltre cinquanta anni. Ne consegue che la questione
di legittimità costituzionale, essendo stata sollevata sulla base di
un’erronea interpretazione della norma censurata, deve essere dichiarata
infondata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6, del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali), in relazione all’art. 1 della legge-delega 8 ottobre 1997, n. 352 (Disposizioni sui beni culturali) e all’art. 127 dello stesso decreto, sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dal Tribunale di Piacenza, con l’ordinanza in epigrafe.