il diritto commerciale d’oggi
    II.6 – giugno 2003

STUDÎ E COMMENTI

 

GIOVANNI CABRAS

Arbitrato e conciliazione nella riforma del diritto societario *

 

 

1. I conflitti nell’ambito delle società

     Con la riforma del diritto societario l’autonomia privata ed il mercato, criteri guida della nuova nuova regolamentazione dettata per le società di capitali, si spingono oltre il campo usuale del codice civile, per toccare territori – quale quello della risoluzione delle controversie – tradizionalmente ritenuti estranei alle regole privatistiche, in quanto soggetti alle severe regole del diritto pubblico.
     Il progetto Mirone, presentato nel 2000 per la riforma delle società di capitali, e successivamente il progetto Rovelli, per la revisione sistematica del diritto commerciale, avevano evidenziato l’esigenza di una giustizia professionale per le controversie in campo commerciale e l’indifferibilità di interventi legislativi in materia, proponendo di costituire, presso le sedi giudiziarie più importanti, sezioni specializzate quali nuovi tribunali di commercio. Invece, la legge delega per la riforma del diritto societario (legge 3 ottobre 2001, n. 366), pur prevedendo l’introduzione di norme processuali al fine di «assicurare una più rapida ed efficace definizione dei procedimenti», ha escluso ogni modificazione della competenza per territorio e per materia (art. 12, 1° comma), precludendo così il risorgere dei tribunali di commercio, soppressi in Italia nel 1888.
     Tuttavia, la stessa legge delega – e non si tratta di una questione di poco conto – ha inteso dare nuovo vigore ad una espressione (forse la più genuina) della giustizia in campo commerciale, disponendo un intervento legislativo in tema di arbitrato e conciliazione (art. 12, 3° e 4° comma). Il legislatore delegato, con il d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, ha così disciplinato con specifiche norme, oltre che un nuovo rito per i processi in materia societaria o materie assimilate (artt. 1-33 del d. lgs. n. 5), anche tre istituti volti ad affrontare, al di fuori della giurisdizione statale, i conflitti che possono sorgere nell’ambito delle società:
     • l’arbitrato, per risolvere in modo decisionale le controversie,
     • la conciliazione, per comporre in modo amichevole le controversie;
     • il c.d. arbitrato economico, per superare i contrasti decisionali nella gestione delle società.
     Pur essendo istituti indubbiamente diversi tra loro, ritengo che essi siano complementari – e così li ha intesi il legislatore, dettandone una regolamentazione nell’ambito della riforma del diritto societario – aventi in comune l’essere tutti sistemi per superare i conflitti:
     a) al di fuori della giustizia statale, affidandosi a soggetti privati;
     b) secondo una procedura prevista dalle parti prima dell’insorgere del conflitto con una apposita clausola.

2. L’autonomia privata nelle controversie d’impresa

     La disciplina dei tre istituti costituisce parte integrante della riforma societaria e va letta perciò – come cercherò di dimostrare – sotto il segno di un ampio riconoscimento dell’autonomia privata nei rapporti tra soci e società e, più in generale, nei rapporti di impresa; autonomia privata che, come è avvenuto in passato per molti secoli, ben può riguardare anche la risoluzione delle controversie.
     Per certi versi è dunque un ritorno al passato, quando i mercanti e poi i commercianti risolvevano con proprie istituzioni le loro controversie. Ma c’è qualcosa di nuovo, che avvicina il nostro ordinamento ad esperienze moderne di Paesi stranieri, nei quali – mi riferisco, in particolare, alle ADR, Alternative Dispute Resolution – si attribuisce importanza, non solo alla natura privata delle forme di giustizia, ma anche alla loro procedimentalizzazione come metodo per conseguire la composizione e la mediazione dei conflitti. La novella rappresenta allora un importante momento per il riconoscimento – con pari dignità, rispetto alla giustizia statale – delle forme giurisdizionali c.d. alternative, quali arbitrato e conciliazione, al fine evidente di favorirne la diffusione.
     Ciò risponde sicuramente all’esigenza di ovviare alle disfunzioni della giurisdizione ordinaria, ma in tal modo si risponde anche alla esigenza sempre più diffusa nelle imprese e, più in generale, nei rapporti economici di avere una giustizia più prossima, meno autoritaria e più efficace, in quanto maggiormente soddisfacente per i vari interessi coinvolti nelle controversie: in altri termini, una giustizia per il mercato e nel mercato.
     Con questa notazione anticipo quella che sarà la chiave di lettura della nuove norme, superando gli aspetti restrittivi – a mio parere, solo apparentemente restrittivi – della riforma.
     Procediamo, però, con ordine, esaminando, sia pure sommariamente, la situazione attuale e la nuova disciplina dei tre istituti. Devo avvertire, però, che tale disciplina ha un carattere speciale, in quanto riguarda l’operatività di ciascun istituto nei rapporti societari (per la conciliazione, tuttavia, anche nei rapporti finanziari, quali delineati per il nuovo processo societario), restando applicabile la disciplina di diritto comune in altre situazioni.

3. I problemi dell’arbitrato nelle società

     Circa l’arbitrato in materia societaria, la situazione attuale è rappresentata da due dati: la diffusione delle clausole compromissorie negli statuti sociali e la estrema difficoltà di svolgere, in concreto, il procedimento arbitrale. Ciò si spiega perché nelle società il deferimento ad arbitri delle controversie tra i soci, nonché tra questi e la società, normalmente deriva da una generale previsione – nel corpo dello statuto sociale – di una apposita clausola compromissoria, inserita al momento della stipulazione dell’atto costitutivo o aggiunta successivamente con una modifica statutaria; quando insorge, in concreto, una controversia, emergono le difficoltà di applicare tale clausola alla questione controversa ed alle parti che vi sono coinvolte, a causa della specificità delle questioni societarie.
     Più precisamente, l’arbitrato in tale materia solleva vari ordini di problemi, riguardanti, in particolare i seguenti aspetti:
     1) l’efficacia della clausola, nonché la vincolatività della stessa per i nuovi soci e per gli amministratori;
     2) la deferibilità della decisione arbitrale ad un organo sociale ovvero ad arbitri da esso designati;
     3) la determinazione delle controversie societarie compromettibili per arbitri.
     A tali problemi, connessi con l’organizzazione ed il funzionamento delle società, se ne aggiungono altri, che, pur non essendo tipici dell’arbitrato societario, in esso si presentano frequentemente e che riguardano i seguenti aspetti:
     5) la cosiddetta clausola arbitrale binaria;
     6) le questioni incidentali sottratte alla competenza arbitrale;
     7) i provvedimenti cautelari nell’arbitrato irrituale.
     In realtà, molte di queste difficoltà risentono di un perdurante sfavore – specie in giurisprudenza e nonostante le contrarie indicazioni contenute nella riforma dell’arbitrato (legge 5 gennaio 1994, n. 25) – per la giustizia arbitrale. Ciò ha indotto il legislatore ad intervenire ora in modo specifico nella materia, nell’ambito della riforma del diritto societario.

4. L’arbitrato nella riforma del diritto societario

     Il d. lgs. n. 5 del 2003, contiene, nel titolo V “dell’arbitrato”, disposizioni profondamente innovative, che entreranno in vigore il 1° gennaio 2004.
     Devo avvertire preliminarmente che non mi occuperò dei dubbi circa l’eccesso di delega, dubbi sollevati da alcuni commentatori del d. lgs. n. 5 e che, se fossero in qualche misura fondati, servono soprattutto ad alimentare quel disfavore che – come ho ricordato dianzi – circonda tuttora l’istituto arbitrale, segnatamente nel dibattito giurisprudenziale. Semmai, ed è questo l’appunto che ritengo di muovere al legislatore delegato, il Governo si è avvalso forse troppo timidamente e parzialmente della delega attribuitagli, perdendo così l’occasione di incentivare efficacemente e diffusamente il ricorso alla giustizia privata in materia di società.
     Dei quattro articoli compresi nel titolo V “dell’arbitrato”, tre sono dedicati all’arbitrato in senso proprio.
     L’art. 34 si occupa dell’oggetto e degli effetti delle clausole compromissorie, disponendo circa:
     • l’ambito di applicabilità (a tutte le società, sia di persone, sia di capitali, con la sola esclusione delle società con azioni quotate o diffuse tra il pubblico);
     • le questioni compromettibili (quelle aventi ad oggetto diritti disponibili e relative al rapporto sociale, con esclusione di quelle per le quali è previsto l’intervento obbligatorio del pubblico ministero);
     • i criteri di nomina degli arbitri (nomina deferita obbligatoriamente ad un soggetto estraneo alla società, in modo da assicurare la terzietà degli arbitri ed evitare i problemi della clausola arbitrale binaria);
     • l’efficacia della clausola compromissoria (per la società e per tutti i soci, nonché, se previsto dalla clausola, per gli amministratori ed i sindaci).
     L’art. 35 tratta del procedimento arbitrale in materia societaria, disciplinando:
     • la pubblicità della domanda arbitrale (deposito nel registro delle imprese, con accessibilità a tutti i soci);
     • l’intervento dei terzi e degli altri soci (intervento volontario dei terzi, nonché intervento degli altri soci su istanza di parte o per ordine degli arbitri);
     • le questioni incidentali (che possono essere decise dagli arbitri – ed è questa una importante deroga alla disciplina arbitraria ordinaria – anche se riguardano questioni non compromettibili);
     • i provvedimenti cautelari (tutela cautelare davanti all’autorità giudiziaria, anche nel caso di arbitrato irrituale, conformemente alla decisione Corte Cost. n. 320/2002; competenza cautelare degli arbitri per la sospensione, con ordinanza non reclamabile, di deliberazioni assembleari impugnate).
     L’art. 36 prevede i casi in cui la controversia arbitrale deve essere decisa secondo diritto e con un lodo impugnabile, e precisamente:
     • quando gli arbitri abbiano conosciuto, in via incidentale, di questioni non compromettibili;
     • quando la controversia riguardi la validità di deliberazioni assembleari.
     Si deve rilevare, a conclusione di questa breve esposizione delle norme in tema di arbitrato societario, che il legislatore ha inteso ribadire in modo chiaro – alla stregua dell’aurea massima: repetita iuvant – la competenza arbitrale in materia societaria per tutte le controversie, salvo quelle relative a diritti indisponibili, facendo venir così meno ogni rilevanza agli interessi coinvolti, quali quelli di terzi. Più precisamente, pur riguardando le società (specie quelle di capitali) interessi di carattere generale, il criterio per distinguere le questioni compromettibili dalle altre è uno solo: la disponibilità o indisponibilità del diritto controverso. In tal modo si superano, circa l’impugnazione di deliberazioni assembleari, gli attuali orientamenti della giurisprudenza e di parte della dottrina, contrari all’ammissibilità dell’arbitrato, quando siano coinvolti interessi di carattere generale.
     Si tratta di una importante novità, che è opportuno rimarcare, considerato che taluni commentatori sembrano sminuirla.

5. I problemi della conciliazione

     Circa il secondo degli istituti, di cui devo occuparmi, ossia la conciliazione, la disciplina finora vigente non pone particolari problemi in materia societaria; i problemi sono comuni a tutte quante le controversie e possono esprimersi con una notazione: la sostanziale inoperatività dell’istituto.
     Devo ricordare che in Italia il primo codice processuale unitario, quello del 1865, poneva come incipit, nel titolo preliminare, la disciplina della conciliazione e subito dopo quella dell’arbitrato, per passare poi alla disciplina dei giudizi davanti all’autorità giudiziaria ordinaria. Una graduazione, che risentiva di antica e prudente sapienza e che è stata rovesciata dal codice di rito del 1940, il quale regolamenta la giustizia civile statale, relegando l’arbitrato tra i procedimenti speciale e disperdendo la conciliazione tra gli “accidenti” del processo.
     In apparente contrasto con tale svalutazione della funzione conciliativa, negli ultimi decenni numerosi provvedimenti legislativi hanno previsto il tentativo – obbligatorio o no; giudiziale o stragiudiziale – della conciliazione: dalle controversie di lavoro (artt. 410 ss. cod. proc. civ., nel testo introdotto nel 1998) a quelle in materia di sub-fornitura (legge n. 192/1998); dalle controversie agrarie (legge n. 203/1982) a quelle per i servizi pubblici (legge n. 281/1998). L’elenco potrebbe proseguire; mi limito a ricordare la norma più recente, prevista dalla riforma della legge sul diritto d’autore (d. lgs. n. 68 del 2003).
     La ripetuta previsione della conciliazione in tante norme di legge somiglia in qualche modo alle “grida”, di manzoniana memoria, ed è segno di un istituto che non riesce ad operare nel nostro ordinamento, a mio avviso, per un duplice motivo: innanzitutto, per una insufficiente considerazione della conciliazione in sede processuale, ossia nel caso in cui il tentativo di conciliazione non riesca e le parti siano costrette a rivolgersi al giudice ordinario (tentativo di conciliazione che allora rappresenta un inutile ritardo per l’avvio del processo); inoltre, per una scarsa diffusione della cultura conciliativa nei rapporti tra privati e, in particolare, tra imprese (basti pensare, per rimanere nel tema del diritto societario, alle impugnazione di deliberazioni assembleari da parte dei soci di minoranza per soli fini di disturbo).
     Non si può tacere dell’opera svolta negli ultimi anni dalle Camere di Commercio per diffondere l’istituto della conciliazione, a seguito del loro riordino con la legge n. 580 del 1993, che ha assegnato appunto tale funzione alle stesse Camere; ma l’impegno profuso da esse con l’istituzione di sportelli per la conciliazione non sembra aver conseguito finora i risultati sperati.

6. La conciliazione nella riforma del diritto societario

     Il d. lgs. n. 5 del 2003, occupandosi, delle controversie in materia di società, patti parasociali, intermediazione mobiliare ed in materia bancaria e creditizia (in quest’ultimo caso, solo quando la controversia sia tra banche ovvero tra una banca ed un’associazione di consumatori), detta una disciplina per la conciliazione stragiudiziale davanti ad organismi di conciliazione. Sono tre articoli, dal 38 al 40 di tale decreto delegato, che entreranno in vigore, insieme alla riforma societaria, il 1° gennaio 2004.
     Le nuove norme disciplinano:
     • con l’art. 38, gli enti legittimati a gestire la conciliazione (organismi di conciliazione costituiti da enti pubblici e privati, con iscrizione in un apposito registro tenuto dal Ministero della Giustizia);
     • con l’art. 39, le agevolazioni applicabili ai procedimenti di conciliazione (esenzione dal bollo per gli atti del procedimento; esenzione fino a 25.000 euro per il verbale di conciliazione);
     • con l’art. 40, 4° comma, gli effetti della domanda di conciliazione (interruzione della prescrizione ed impedimento della decadenza, come per la domanda giudiziale);
     • con l’art. 40, 1°-3° comma, gli aspetti procedurali (riservatezza del procedimento; imparzialità del conciliatore; non utilizzabilità, nell’eventuale successivo giudizio, delle informazioni rese dalle parti nel corso del procedimento; in caso di marcato accordo, verbale con la proposta del conciliatore e la posizione delle parti al riguardo);
     • con l’art. 40, 8° comma, gli effetti del verbale di conciliazione (omologazione con decreto del presidente del tribunale, con conseguente efficacia di titolo esecutivo).
     Si tratta di norme che affrontano in modo nuovo il tema della conciliazione, in particolare, dettando una disciplina, finora mancante, per il procedimento conciliativo. Forse è una regolamentazione troppo rigida, che sembra imporre anche la omologazione del verbale, trascurando così l’autonomia privata, che, nell’arbitrato, ha portato alla forma irrituale, nella quale la decisione non è suscettibile di acquisire efficacia esecutiva.

7. Sistemi per superare situazioni di stallo decisionale

     L’art. 37 del d. lgs. n. 5 del 2003 si occupa, infine, di una figura giuridica che la Relazione di accompagnamento allo stesso decreto definisce come arbitrato c.d. “economico” (invero arbitrato, in senso proprio, non è, pur avendo attinenza con esso) e che finora che non trovava espressa previsione nel nostro ordinamento.
     Tra i sistemi previsti nella prassi contrattuale per superare situazioni di stallo decisionale (dead-lock, nella terminologia internazionale) in ordine alla gestione di imprese societarie vi è quello di stabilire con una clausola statutaria che le eventuali divergenze circa scelte operative siano rimesse ad un collegio arbitrale.
     La riforma del diritto societario riconosce espressamente l’ammissibilità di clausole statutarie di dead-lock, disponendo che nelle società a responsabilità limitata e nelle società di persone l’atto costitutivo possa contenere «clausole con le quali si deferiscono ad uno o più terzi, nominati da soggetto estraneo alla società, i contrasti tra coloro che hanno il potere di amministrazione in ordine alle decisioni da adottare nella gestione della società» (art. 37, 1° comma), con una decisione vincolante, reclamabile davanti ad un collegio, soltanto se ciò sia previsto nello statuto sociale (art. 37, 2° comma).
     Pur rimanendo il dubbio se si tratti di arbitrato o di arbitraggio ovvero di una figura di altra natura, la riforma del diritto societario fornisce un importante contributo per la risoluzione di contrasti, anche al di fuori delle controversie in senso stretto. Tuttavia, non si comprende perché l’arbitrato in materia gestoria sia previsto soltanto per le società di persone e per le società a responsabilità limitata, e non per le società per azioni, nelle quali l’operatività di simili clausole sarebbe assai più proficua.
     Ritengo, tuttavia, che nelle società per azioni, nel rispetto delle competenze esclusive degli organi amministrativi, possano introdursi ugualmente sistemi per ovviare alle situazioni di stallo decisionale, ancorché l’operatività di simili clausole debba affidarsi al diritto societario comune e non possa beneficiare della specifica disciplina del d. lgs. n. 5.

8. La clausola compromissoria

     I tre istituti in esame sono stati disciplinati dalla riforma societaria in relazione ad una clausola contenuta nello statuto della società o, per la conciliazione, anche in un contratto.
     Si deve allora sottolineare che la novella non ha disciplinato l’arbitrato, la conciliazione o l’arbitrato economico in quanto tali, ma solo nelle ipotesi in cui siano stati voluti dalle parti con una previsione di carattere generale e, più precisamente, con una clausola compromissoria, inserita nello statuto sociale (o, per la conciliazione, pure in un contratto).
     Il legislatore ha inteso così favorire i sistemi preventivi per la risoluzione dei conflitti, indicando nella preordinazione (statutaria o contrattuale) l’elemento base per l’applicazione della nuova disciplina ed evidenziando lo stretto collegamento con l’impostazione della riforma del diritto societario. Infatti, tale riforma riconosce all’autonomia privata la possibilità esplicarsi ampiamente nelle società, dando luogo ad una pluralità di sistemi organizzativi: ora anche in materia di giustizia.
     In questa prospettiva, particolare importanza ha la introduzione nello statuto della clausola di risoluzione dei conflitti. Al riguardo, il d. lgs. n. 5 del 2003 si è occupato soltanto della clausola compromissoria arbitrale, richiedendo una maggioranza qualificata (e, precisamente, i 2/3 del capitale sociale) per l’introduzione o la soppressione durante societate, nonché il diritto di recesso dei soci dissenzienti (art. 34, 6° comma). Segnalo che, in via transitoria, l’adeguamento delle clausole compromissorie statutarie preesistenti può avvenire entro il 30 settembre 2004 per le s.p.a. e le s.r.l. ed entro il 31 dicembre 2004 per le società cooperative con deliberazione adottata a maggioranza semplice e senza diritto di recesso (art. 41, 2° comma, d. lgs. n. 5) e che l’adeguamento, oltre che l’introduzione ex novo, può avvenire anche prima del 1° gennaio 2004 (art. 223-bis disp. attuaz. cod. civ., che parla espressamente di clausole statutarie conformi ai decreti – al plurale – attuativi della riforma societaria).
     Che succede, però, per gli altri due istituti? Per le clausole di dead-lock, non si pongono particolari problemi, in quanto la loro introduzione, modificazione e soppressione è assoggettata completamente alla disciplina delle modifiche statutarie nelle società di persone o a responsabilità limitata.
     Per le clausole compromissorie conciliative, invece, si pone l’alternativa tra l’applicazione della disciplina comune in tema di modificazioni statutarie ovvero, in via analogica, di quella prevista espressamente per la clausola statutaria: quindi introduzione a maggioranza qualificata e con diritto di recesso. Propendo per questa seconda ipotesi, poiché i problemi sono analoghi a quelli dell’arbitrato; escluderei, invece, che si richieda l’unanimità dei consensi.

9. Il “terzo”

     Particolare attenzione va rivolta, per la formulazione delle clausole arbitrarie, conciliative o relative a situazioni di stallo decisionale, al soggetto, cui è demandata la decisione o la composizione della controversia ovvero la decisione circa la disputa gestionale. Qualche indicazione è fornita dalle Camere di Commercio, che hanno proposto clausole-tipo per l’arbitrato e la conciliazione, con riferimento, però, soltanto alle proprie camere arbitrali o conciliative.
     In generale si deve rilevare che in tutti gli istituti in esame c’è la presenza di un terzo, arbitro (nell’arbitrato), conciliatore (nella conciliazione) o arbitratore (nello stallo decisionale). Per i primi due istituti emerge la preferenza legislativa per procedimenti amministrati, anziché ad hoc.
     Per l’arbitrato, in particolare, la novella, al fine di sgombrare il campo dai dubbi circa la terzietà degli arbitri endosocietari, ha adottato una soluzione, a mio avviso, un po’ drastica, disponendo che la clausola compromissoria deve indicare, a pena di nullità, il numero degli arbitri e le modalità di loro nomina, nonché prescrivendo che il potere di nomina possa essere conferito solo «a soggetto estraneo alla società» e che, in difetto della nomina da parte del soggetto designato, la nomina è richiesta al presidente del tribunale, nella cui circoscrizione è posta la sede della società (art. 34, 2° comma).
     Non c’è perciò molta autonomia circa le modalità di nomina; anzi, in pratica, la modalità è una sola, ossia la attribuzione del potere di nomina a soggetto estraneo alla società. Così, non solo viene preclusa la possibilità del collegio arbitrale endosocietario, ma viene impedito alle parti anche di rimettere a se medesime, come avviene normalmente nell’arbitrato cosiddetto ad hoc, la nomina degli arbitri al momento della lite.
     In definitiva, il decreto legislativo sembra incentivare l’arbitrato amministrato, il solo che sia effettivamente idoneo ad assicurare la nomina, al momento opportuno, degli arbitri, essendo difficile che tale compito possa essere affidato ad una persona fisica.
     Per la conciliazione, la novella ha previsto la composizione delle controversie affidata ad appositi organismi; ciò significa che si è privilegiata la conciliazione che, a somiglianza di quanto avviene per l’arbitrato, possiamo definire “amministrata”. In altri termini, la conciliazione “ad hoc”, raggiunta con l’intervento di un conciliatore, nominato concordemente dalle parti (in via preventiva, in una clausola di conciliazione; ovvero, a lite insorta, con un compromesso conciliativo), pur non essendo vietata, non usufruisce della nuova disciplina.
     La limitazione della conciliazione ad appositi organismi (che, peraltro, possono essere costituiti solo da enti pubblici e privati e, quindi, non da persone fisiche, senza che vi sia una giustificazione di tale restrizione) comporta un corollario, ossia che le modalità di svolgimento della conciliazione non potranno essere scelte dalle parti, dovendosi applicare il regolamento che ciascun organismo di conciliazione è tenuto ad adottare ed a sottoporre all’approvazione del Ministero della Giustizia. A meno che tale regolamento non preveda una pluralità di opzioni (quelli delle camere conciliative esistenti, però, non dimostrano particolare attenzione all’autonomia privata), ne conseguirà una standardizzazione, che non sembra particolarmente favorevole alla definizione negoziale delle liti.
Peraltro, suscita perplessità l’obbligo del conciliatore di indicare ugualmente la sua proposta, nel caso in cui le parti non raggiungano l’accordo, nonché l’obbligo di queste ultime di indicare le proprie rispettive posizioni. Sebbene tali dichiarazioni non siano utilizzabili nell’eventuale successivo giudizio (salvo che per tenerne conto ai fini della decisione sulle spese), non si comprende perché il conciliatore e le stesse parti debbano prendere necessariamente e per iscritto posizione sulla questione controversa, qualora non vi siano le condizioni per la conciliazione.

10. Esigenze di maggiore apertura verso il mercato

     La preferenza per gli arbitrati e la conciliazione amministrati e, per la conciliazione, solo con appositi organismi di nuova istituzione esprime indubbiamente la professionalizzazione che la giustizia privata nei rapporti tra imprese richiede. Tuttavia, la professionalizzazione è stata vista, con un salto in avanti del legislatore, solo nel senso di organismi che svolgono in modo professionale tali funzioni, e, quindi, sostanzialmente nel senso di organismi a carattere imprenditoriale.
     Ritengo, invece, che per ricreare le basi di quella giustizia varia e diffusa, assente ora (ma non in passato) nel nostro Paese, occorra ripartire dal basso, dalle imprese e dai soggetti che con esse entrano in rapporto, non già partire dall’alto, ossia da enti o organismi che imitino, ovviamente senza averne le capacità e l’autorità, i tribunali e le corti dell’ordinamento giudiziario statale. Peraltro, è essenziale che non si ricreino nuovi monopoli, con esclusive attribuite a specifici organismi; infatti, la professionalizzazione degli arbitrati e delle conciliazioni è forse inevitabile, ma non può essere imposta legislativamente e, soprattutto, con riferimento a quel che c’è già (le camere arbitrali o conciliative delle rare iniziative, sorte negli ultimi anni in Italia).
     La professionalizzazione, invece, va riportata alla grande ricchezza e varietà delle professioni che assistono le imprese ed i loro clienti, nonché – in una diversa, ma ugualmente importante prospettiva – alla esperienza ed al buon senso economico che si trovano negli imprenditori (i “commercianti” del vecchio codice di commercio e dei tribunali di commercio). Tutti questi soggetti, e, in particolare, i professionisti e gli imprenditori, devono poter assolvere alla funzione di risoluzione e composizione delle liti al pari degli organismi appositi, se non si vuole relegare tale funzione in posizione assolutamente marginale, quale è stata finora.
     Sarà poi il mercato a selezionare le forme più idonee. Nel frattempo, bisogna consentire che l’autonomia privata si esplichi in senso ampio, non solo per la scelta delle forme di giustizia privata (magari con ricorso pure alla mediazione o altre forme di ADR), ma anche per i soggetti che in modo professionale possono adempiere a tale funzioni: soggetti tra i quali vanno compresi, oltre agli enti pubblici e privati, i professionisti (avvocati, commercialisti, notai, ecc.) che tradizionalmente e con grande efficacia svolgono in Italia la consulenza per le società e, in genere, per le imprese.
     Peraltro, l’apporto di tali professionisti è essenziale per consentire la effettiva applicazione dei nuovi istituti nelle società (di persone e di capitali), avviando quest’opera con l’inserire nei loro statuti le relative clausole, nonché consentendo così di superare le disfunzioni del processo ordinario e soprattutto di rendere meno conflittuali i rapporti di impresa.

 

     * Relazione svolta al convegno organizzato a Roma il 9 maggio 2003 dall’ASDAG-Associazione Dottori commercialisti per l’Attività Giudiziaria, su “Il dottore commercialista e la riforma del diritto societario”

 

 

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