il diritto commerciale d’oggi
    III.6 – giugno 2004

STUDÎ E COMMENTI

 

ORSOLA MILANI

Vendite sottocosto, concorrenza sleale e principio di concorrenza

 

 

   I due provvedimenti qui annotati (Trib. Roma 18 febbraio 2004 e Trib. Torino 25 marzo 2004) affrontano la questione concernente la possibilità di inquadrare, qualora ricorrano determinati presupposti, la vendita a prezzo non remunerativo, così come definita dall’art. 1 del D.P.R. n. 218 del 2001 (in attuazione dell’art. 15 del D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 114), nell’ambito della nozione residuale, prevista dall’art. 2598 n. 3 cod. civ. per gli atti di concorrenza sleale.
   Ai fini di una corretta impostazione del problema, appare necessario, in primo luogo, individuare i parametri, ai quali fare riferimento in sede di valutazione circa la possibilità di considerare le vendite sottocosto ricomprese tra gli illeciti concorrenziali, di cui al predetto art. 2598 n. 3 cod. civ.
Un semplice esame del dato normativo consente di affermare, in prima approssimazione, che la pratica commerciale consistente, secondo quanto stabilito dall’art. 1 D.P.R. cit., nella vendita al pubblico di prodotti, ad un prezzo inferiore a quello risultante dalle fatture di acquisto, maggiorato delle eventuali imposte e diminuito degli eventuali sconti, integra un’ipotesi di concorrenza sleale sltanto nel caso in cui si ravvisi un comportamento «non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda» (art. 2598 n. 3 cod. civ.).
   Occorre rilevare, tuttavia, la mancanza di un razionale equilibrio tra la disciplina, dettata in via generale in materia di concorrenza, e le rigorose condizioni e limitazioni, alle quali il legislatore ha sottoposto le vendite a prezzo non remunerativo.
   La normativa nazionale antitrust, oltre ad adeguare il nostro ordinamento al principio di rango superiore della «economia di mercato aperta ed in libera concorrenza» (art. 4 del Trattato CE), conferma l’orientamento, tradizionalmente dominante in dottrina ed in giurisprudenza, secondo il quale le manovre ribassiste venivano generalmente considerate – prima della normativa speciale sulle vendite sottocosto – rientranti nella normale fisiologia, propria del gioco della concorrenza (1): la vendita con margine non retributivo era ritenuta, in altri termini, espressione della libertà individuale di iniziativa economica, in ordine alla politica di prezzo.
   Analogamente si concludeva, con specifico riferimento alla vendita sottocosto, nel senso della generale liceità di tale pratica commerciale, salva la dimostrazione della sussistenza, in capo al ribassista, di una “volontà di annientamento” del concorrente (2).

   Un primo elemento, al quale attribuire rilievo parametrico al fine di valutare la eventuale illiceità, ex art. 2598 n. 3 cod. civ., delle vendite sottocosto, può essere individuato nell’intento monopolistico, posto che tali manovre possono costituire lo strumento per espellere dal mercato imprese che risultano perfettamente “sane” sotto il profilo della gestione aziendale, ma non possiedono le capacità finanziarie sufficienti per “reggere”, vendendo anch’esse sottocosto, la concorrenza del ribassista (3)
   È necessario, tuttavia, segnalare la presenza di un opposto indirizzo giurisprudenziale, nell’ambito del quale il requisito soggettivo de quo viene ritenuto ininfluente, ai fini dell’inquadramento della vendita sottocosto tra gli illeciti concorrenziali, laddove si attribuisce un rilievo fondamentale ai criteri, di natura oggettiva, costituiti dalla idoneità della condotta a danneggiare le aziende concorrenti, e dalla contrarietà della stessa ai principi della correttezza professionale, criteri che, come si accennava, possono ricavarsi direttamente dal dato normativo (cfr. art. 2598 n. 3 cit.).
   Nell’ambito di tale orientamento si inseriscono i provvedimenti, rispettivamente emessi dal tribunale di Roma e da quello di Torino (dichiaratamene il primo ed implicitamente il secondo), attribuendo un rilievo assorbente a parametri – quali la struttura del mercato, le caratteristiche del prodotto, la frequenza e la durata della vendita sottocosto – che prescindono dall’elemento soggettivo, rappresentato dall’intento monopolistico.

   Di notevole interesse appare, a tal proposito, la motivazione della sentenza resa dal tribunale di Roma, la quale, nell’aderire al predetto indirizzo giurisprudenziale, sottolinea la necessità di riferirsi al criterio, costituito dalla eccessiva onerosità della reazione che la condotta del ribassista, in considerazione delle caratteristiche dell’offerta, può imporre ai concorrenti.
   Qualche perplessità può invece suscitare, nel merito, l’ordinanza emessa dal tribunale di Torino, laddove l’idoneità della condotta, posta in essere dal resistente, a funzionare come collettore di clientela (incidendo sulle abitudini dei consumatori e danneggiando, di conseguenza, le aziende altrui in modo permanente), appare dubbia, in relazione all’entità irrisoria del prezzo praticato (si trattava, nel caso di specie, dell’offerta di circa 600 g di pane, per il controvalore di 0,01 Euro).
   Sembra difficile, in altri termini, che una simile modalità di offerta possa fuorviare il giudizio dei consumatori, arrecando un danno alle imprese concorrenti, posto che il carattere non remunerativo del prezzo praticato appare, nell’ipotesi in esame, di palmare evidenza, così come la mancanza di una direzionalità specifica, ascrivibile alla condotta del resistente. Si può anzi osservare come l’assoluta sproporzione, esistente tra il valore del prodotto offerto ed il prezzo praticato, renda legittimo dubitare della stessa possibilità di inquadrare il fenomeno nell’ambito della fattispecie “vendita”.
   Si consideri a tal proposito come risulti, in generale, estremamente difficile individuare con esattezza quando, in concreto, risulti integrata la fattispecie de qua, sia a causa della scarsa affidabilità, offerta dai criteri di cui all’art. 1 D.P.R. cit., sia in considerazione della diffusione, nella realtà imprenditoriale, di pratiche affini, quali il dumping ed i c.d. “prezzi predatori”.
   Il primo si caratterizza infatti, rispetto alla vendita sottocosto, per la presenza di due elementi specializzanti, rispettivamente costituiti dalla finalità di acquisire un nuovo mercato, e dalla circostanza che le perdite, sopportate vendendo i prodotti a prezzo non remunerativo, risultano compensate dall’extraprofitto conseguito nel mercato estero – grazie all’esistenza di dazi che ostacolino l’importazione dei medesimi prodotti (cfr. la voce del Dizionario); i “prezzi predatori” rientrano, invece, nella fattispecie di cui all’art. 3 della Legge n. 287 del 1990, in quanto praticati dalle imprese, che abbiano acquisito una posizione dominante sul mercato, al fine di estromettere le concorrenti (cfr. la voce del Dizionario).
   Si tratta tuttavia di figure, i cui contorni si presentano incerti, anche a causa della necessità di ricorrere, sia pure in modo sfumato, all’elemento psicologico, e che non sempre appaiono, nella pratica, facilmente distinguibili l’una dall’altra, il che rende ancora più problematica l’individuazione dei criteri, rilevanti ai fini dell’eventuale inquadramento delle vendite sottocosto tra gli illeciti, previsti in via generale in sede di disciplina della concorrenza.

 

NOTE

   (1) Cfr. GHIDINI, Della concorrenza sleale, in Il Codice Civile. Commentario diretto da P. Schlesinger, sub artt. 2598 - 2601, Milano 1994, p. 319 ss.

   (2) Ibid., p. 321.

   (3) Ibid., p. 320.

 

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