il diritto commerciale d’oggi
    IV.6 – giugno 2005

STUDÎ & COMMENTI

 

ANTONIO GIOVANNONI
La nozione di “operatore qualificato” sul mercato finanziario:
limiti dell’attuale assetto normativo

 

SOMMARIO: 1. La tutela costituzionale del risparmio – 2. Profili sostanziali del mercato dei titoli derivati – 3. La legislazione in materia di “operatore qualificato”: la fonte primaria e la fonte regolamentare – 4. Necessità di una riforma della norma regolamentare e casi di danno provocati ad enti pubblici territoriali per investimenti comportanti un elevato rischio.

 

1. La tutela costituzionale del risparmio
   Negli ordinamenti a base costituzionale, in genere, la tutela costituzionale del risparmio si pone come norma programmatica, o di principio, assistita da una riserva di legge, per consentire la tutela, oltre che di posizioni giuridiche personali, anche di una variabile macroeconomica considerata fondamentale a livello sistemico (1). Infatti, la stessa dizione utilizzata dal Costituente nel primo comma dell’art. 47 («… incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme»), unitamente alla stretta connessione operata con il credito («disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito») indirizza l’interprete verso un significato ampio della disposizione, anche o soprattutto in termini economici (2).
Il fatto che una norma costituzionale predisponga i mezzi per la tutela del risparmio (ed il controllo del credito) rientra in quella vasta area di strumenti di tutela che le moderne Costituzioni ritengono necessarie in un generale contesto di coesione sociale e di stabilità dell’ordine pubblico (3). Ciò nondimeno, è poi la legislazione derivata che, in termini sostanziali, concretizza quella tutela, mediante l’apporto determinante degli organismi pubblici destinati ad esercitare, mediante atti autoritativi di indirizzo amministrativo, il controllo delle variabili economiche che caratterizzano il mercato.
   In materia di valori mobiliari, poi, e di mercati regolamentati, il nostro sistema giuridico ha, negli ultimi tempi, rinforzato il sistema delle tutele costituzionali, predisponendo una serie di atti legislativi e regolamentari che, però, non sempre sono riusciti nell’intento. Nelle pieghe della legislazione, vuoti normativi o vere e proprie violazioni di legge hanno permesso, in numerosi casi, alterazioni degli equilibri e delle tutele, che si sono poste in netto contrasto con i valori previsti dalla Costituzione.
   Nello stesso tempo, il progresso tecnologico (soprattutto nel settore della information technology) ha allargato a dismisura le conoscenze economiche, anche presso un pubblico molto più vasto rispetto al cinquantennio successivo al dopoguerra, convogliando interessi e risorse verso i mercati borsistici ed assimilando, non sempre in senso positivo, le esperienze soprattutto nord-americane verso titoli e valori mobiliari, destinati inevitabilmente ad accrescere le occasioni di rischio, così come quelle di guadagno.
   Così, da un lato, non sempre la tutela costituzionale del risparmio ha trovato una legislazione primaria o secondaria in grado di adeguarsi velocemente all’uso di strumenti di investimento molto diversi; dall’altro, l’espansione delle conoscenze economiche e lo sviluppo impetuoso dei mercati finanziari non sempre hanno creato adeguati know-how e “tecnicità” in grado di fungere da supporto operativo e relazionale alle decisioni di investimento, sovente svuotando di significato sostanziale il sistema delle tutele cui abbiamo fatto riferimento.

2. Profili sostanziali del mercato dei titoli derivati
   Profili di indubbia criticità si sono incontrati e si incontrano tuttora – a dimostrazione dell’assunto che abbiamo testé illustrato – nel c.d. “mercato dei derivati”, concentrato su operazioni puramente speculative, di derivazione nord-americana, dove appare quanto mai indispensabile l’utilizzazione di conoscenze tecniche, che lo stesso legislatore (sia in fonti primarie, sia in fonti regolamentari) considera quale supporto prioritario per equilibrate decisioni di investimento e, quindi, in osservanza delle disposizioni costituzionali di tutela del risparmio (4).
   All’area dei c.d. “contratti derivati”, in realtà, appartengono numerose figure negoziali. Infatti, in dottrina si sottolinea come questi contratti mal si configurino quale categoria unitaria, a differenza dei tradizionali contratti di borsa, sia quelli tipici, sia quelli atipici. Si sottolinea, infatti, come «la dizione stessa di contratti derivati potrebbe per un verso implicare quale assunto fondamentale la previa qualificazione di questi quale categoria giuridica autonoma all'interno della quale si rinviene una serie di articolazioni con strutture diversificate, per altro una valenza finanziaria che identifica una categoria di negozi giuridici disparati, non accomunati in un genus giuridico». Conseguentemente, «i contratti in esame sono finalizzati a dare veste giuridica ad una molteplicità di operazioni finanziarie che si evolvono a ritmi frenetici e che mal tollerano le ingessature delle classificazioni giuridiche ove queste si trasformino in impedimenti operativi» (5).
   I contratti in questione assumono il loro nome dal fatto che essi “derivano” il loro valore da quello di altri schemi negoziali (generalmente definiti “sottostanti”), quali, ad esempio, titoli, valute, tassi di interesse, tassi di cambio, indici di borsa (6). Ci si troverebbe di fronte ad un “collegamento negoziale”, anche se non del tutto “proprio” dal punto di vista della funzionalità giuridica, ma sicuramente dal punto di vista dell’economia normativa, in quanto il negozio derivato trarrebbe la sua causa da un rapporto sottostante, dipendendo da questo, infatti, il limite razionale della volontà del contraente finalizzata al raggiungimento di un certo fine speculativo (7).
   La “giustificazione” economica dell’affermarsi di questi strumenti, per certi versi, estranei all’esperienza negoziale italiana, si rinviene generalmente nell’instabilità degli assetti del mercato finanziario, che inducono gli investitori a “coprire” determinate scelte di impiego del capitale speculativo (8).
   Per comprendere meglio il problema discusso in questa sede, sarà sufficiente fare un rapido riferimento ai due principali strumenti che si sono sempre più affermati nell’area dei contratti derivati. Essi sono i contratti genericamente definiti futures e i contratti swap (9).
   La funzione di entrambe le tipologie negoziali sono riassunte nel loro nome. Il future si caratterizza per essere un contratto di acquisto “a termine” di determinati beni fungibili (ed anche di valori mobiliari, financial future) con la fissazione del prezzo iniziale, che ovviamente nel periodo finale potrà essere inferiore o superiore a quello pattuito. In particolare, i financial futures sui titoli hanno per oggetto un valore mobiliare che, nella realtà, non esiste, è puramente “virtuale”. A base di riferimento vengono presi titoli reali e il valore del titolo fittizio viene a loro equiparato mediante un tasso di conversione. Questa figura negoziale spiega l’estrema aleatorietà degli strumenti derivati (10).
   Per quanto concerne gli swap, essi sono negozi di scambio di valuta di uguale ammontare ma calcolati con differenti indici (tassi di interesse o di cambio). Alla fine del periodo considerato, viene effettuata una compensazione forzata e viene pagato da un soggetto il saldo netto della differenza registrata nella valutazione della somma di denaro. Si tratta di un contratto aleatorio, a base commutativa, la cui causa è configurabile nello scambio di pagamenti assunti con due parametri differenti. Ad esso può farsi ricorso, ad esempio, nel caso di “coperture” da rischi di cambio, qualora si prospetti una notevole variazione nella valutazione di due monete normalmente utilizzate per il commercio (ad esempio, dollaro ed euro).

3. La legislazione in materia di “operatore qualificato”: la fonte primaria e la fonte regolamentare
   Da quanto si è sommariamente esposto, si comprende che i contratti derivati presentano un altissimo rischio speculativo, per quanto molti di essi siano stipulati esattamente per “coprirsi” da un correlato rischio sottostante ad altro rapporto negoziale. È dunque interessante osservare come la tutela costituzionale del risparmio abbia inciso sul sistema normativo, soprattutto per quanto concerne quello che possiamo definire la “cartina di tornasole” del mercato finanziario: cioè, un prodotto ad alto rischio e ad alta tecnicità, per il quale si presuppone una certa rigidità di regolamentazione della domanda da parte del sistema e un complesso di disposizioni di responsabilizzazione degli intermediari.
   L’art. 6 del testo unico sull’intermediazione finanziaria 24 febbraio 1998, n. 58 contiene norme di principio sulla tutela del risparmiatore. In particolar modo, il 2° comma dell’articolo citato, dopo aver disposto che la Consob deve tenere conto delle differenziazioni fra i vari intermediari e le varie possibilità di investimento (11), dispone, mediante regolamento, tre vincoli fondamentali: a) le procedure di controllo interno che gli intermediari devono osservare in relazione ai servizi prestati e agli ordini ricevuti; b) in particolar modo, fra l’altro, i rispetto del principio della corrispondenza fra l’investimento da effettuare e le esigenze specifiche dell’investitore (12); c) il dovere di assolvere agli obblighi informativi nella prestazione di servizi.
   Nello spirito legislativo sotteso al TUIF, in riferimento essenziale al principio di tutela del risparmio, un ruolo preponderante viene attribuito alla nozione di “operatore qualificato”. In altri termini, in base alla fonte primaria, il dettato costituzionale si scinderebbe a seconda che l’investitore sia persona (fisica o giuridica) esperta, dotata di quella esperienza tecnica idonea, in ipotesi, a prevenire o perlomeno ad abbassare la soglia di rischio dell’investimento (rectius: ad effettuare una scelta pienamente razionale nella decisione di investimento, secondo i canoni dell’economia normativa), per il quale la tutela è limitata, ovvero nel caso in cui l’investitore sia persona estranea alla nozione di “operatore qualificato” (13).
   Il sistema normativo distingue e valorizza un principio liberistico: il mercato dei prodotti finanziari è, di per sé, mercato ad alto rischio. La piena razionalità dell’agire, da parte di un soggetto, all’interno di esso dipende anche (e per alcuni essenzialmente) dalla presenza o meno di asimmetrie informative. La legge presume che l’operatore qualificato non presenti asimmetrie informative – data la sua specializzazione e la sua professionalità – laddove, invece, nel caso di un operatore non qualificato, la legge presume l’esistenza di asimmetrie informative.
   La fonte regolamentare accoglie questo assunto in modo non del tutto coerente ed efficace rispetto al principio della tutela costituzionale del risparmio.
   Alcune norme del Regolamento Consob n. 11522 del 1° luglio 1998 irrigidiscono la libera operatività dei soggetti sul mercato dei titoli. Ad esempio, l’art. 29, 1° comma Reg. Consob inibisce addirittura l’effettuazione di “operazioni non adeguate” («Gli intermediari autorizzati si astengono dall'effettuare con o per conto degli investitori operazioni non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza o dimensione»), chiarendo peraltro che «gli intermediari autorizzati, quando ricevono da un investitore disposizioni relative ad una operazione non adeguata, lo informano di tale circostanza e delle ragioni per cui non è opportuno procedere alla sua esecuzione» (art. 29, 3° comma). Nel caso in cui l’investitore voglia comunque effettuare l’operazione, «gli intermediari autorizzati possono eseguire l'operazione stessa solo sulla base di un ordine impartito per iscritto ovvero, nel caso di ordini telefonici, registrato su nastro magnetico o su altro supporto equivalente, in cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute» (art. 29, 3° comma ult. parte).
   L’art. 31, 1° comma, peraltro, prevede che le previsioni da ultimo esaminate, tendenti a rafforzare il grado di tutela dell’investitore, non si applicano alle categorie di “operatori qualificati”, così come elencate nel successivo 2° comma del medesimo articolo. Per questi soggetti, dunque, non vi è alcuna tipologia di responsabilità “rinforzata” da parte degli intermediari, se non quella prevista in materia di colpa per difetto di informazione dei prospetti informativi e degli altri documenti che accompagnano il valore mobiliare che si colloca sul mercato (14). In questa ultima categoria di “operatori qualificati”, già di per sé assai estesa, rientrano anche, in base a quanto dispone l’ultima parte del 2° comma dell’art. 31, anche «ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentante».
   L’ultima disposizione regolamentare parifica, dunque, determinate persone giuridiche alla ampia categoria di “operatori qualificati”, mediante una semplice dichiarazione unilaterale del rappresentante legale della società o ente, che attesti una “specifica competenza ed esperienza” nel settore delle contrattazioni sui mercati mobiliari.
   Il Regolamento Consob, in questo caso, sembra voler attenersi, in materia di responsabilità, agli schemi fiduciari presenti nella disciplina delle società di capitali e che forniscono agli amministratori quei poteri di direttiva e governo degli atti sociali, nei quali dovrebbe rientrare l’attestazione di cui dispone il Regolamento stesso (15).
   La dottrina non ha mancato di evidenziare come, nello specifico, la norma posta dall’ultima parte del 2° comma dell’art. 31 Reg. Consob n. 11522/98 difetti in toto di qualsivoglia parametrazione oggettiva, in grado di fornire una qualche solidità ulteriore alla dichiarazione del rappresentante legale della società o ente che intende acquistare valori mobiliari ad alto rischio. Infatti, si sottolinea, «la mancanza di ogni espresso riferimento a questa ulteriore caratterizzazione degli operatori qualificati, se è facilmente spiegabile rispetto a coloro i quali abbiamo convenzionalmente definito imprenditori finanziari (per i quali è assolutamente implicita nella natura imprenditoriale della loro attività finanziaria), resta, a prima vista, invece, oscura per le società commerciali che possono benissimo non avere un oggetto sociale di tipo prevalentemente finanziario» (16).
   La norma, dunque, opera la parificazione con “operatori qualificati” del mercato finanziario – in base ad un mero atto unilaterale o dichiarazione di scienza da parte del rappresentante legale dell’ente o società – anche in casi in cui il soggetto in questione si sia limitato, nel tempo, ad effettuare alcune operazioni di copertura o investimenti momentanei, finalizzati all’impiego di una liquidità eccedente le reali necessità dell’impresa commerciale. E dunque si sottolinea, ancora, che l’omissione da parte del legislatore regolamentare di un qualsivoglia appiglio in senso oggettivo che rafforzi la dichiarazione del rappresentante legale «si pone in termini problematici soprattutto perché non sembra discutibile che per il nostro ordinamento positivo, il livello minimo di competenza ed esperienza tale da rendere esperto un investitore (e quindi non bisognoso dell’ordinaria tutela) è quello derivante dall’esercizio di un’attività che abbia in qualche modo a che fare con l’investimento in strumenti finanziari e non dal compimento di singoli (ed occasionali) atti strumentali alla soddisfazione – attraverso strumenti finanziari – dell’interesse alla remunerazione del capitale investito» (17).

4. Necessità di una riforma della norma regolamentare e casi di danno provocati ad enti pubblici territoriali per investimenti comportanti un elevato rischio
   L’impatto che la norma analizzata ha avuto nella realtà convince pienamente gli interpreti (dottrina e giurisprudenza) a chiederne una sostanziale riforma.
   Recentemente, in una sua ordinanza, il Tribunale di Milano ha apertamente mostrato l’inadeguatezza della norma laddove affida ad una semplice dichiarazione unilaterale l’accertamento della nozione di “operatore qualificato” (18). Il giudice, nella specie, evidenzia come ci si trovi di fronte ad un «indubbio limite» rappresentato «da una siffatta disposizione normativa nella parte in cui affida ad una dichiarazione autoreferenziale l’individuazione di un “operatore qualificato”, soprattutto ove si consideri che da tale qualificazione discendono conseguenze rilevantissime sul piano delle norme di protezione dell’investitore».
   Il giudice, peraltro, una volta constatata l’inadeguatezza della norma de qua, fa esplicito riferimento al progetto di riforma dell’art. 31, 2° comma Reg. Consob. n. 11522/98, il quale introduce elementi oggettivi di valutazione in ordine alla dichiarazione di “operatore qualificato” ed è alla luce di tali parametri che acconsente a considerare “operatore qualificato” la società ricorrente.
   Il progetto di riforma del Regolamento in oggetto specifica che, ai fini della dichiarazione di “operatore qualificato”, è necessaria la sussistenza di tre parametri oggettivi: a) un totale di bilancio non inferiore ai venti milioni; b) un fatturato netto non inferiore ai venti milioni; c) patrimonio netto non inferiore ai due milioni.
   Peraltro, anche questi parametri potrebbero risultare insufficienti a garantire un’effettiva tutela così come prevista dalla Costituzione. A dimostrazione di questo ultimo assunto, vi è il fatto che la direttiva 2004/39/CE, approvata nell’aprile del 2004 e non ancora recepita nel nostro ordinamento, subordina la dichiarazione di “operatore professionale” a requisiti e a procedure molto più selettive (19). Con il recepimento di queste disposizioni, si dovrà distinguere sostanzialmente fra due categorie di investitori all’interno di quella generale di “clienti professionali”. La prima categoria è composta da soggetti che per la loro attitudine e per le caratteristiche imprenditoriali della loro attività sono naturalmente inseriti nell’area degli operatori qualificati; la seconda è composta da quei soggetti che, invece, richiedano specificamente di essere considerati tali. L’inserimento di questi ultimi soggetti nella categoria di clienti professionali, tuttavia, è subordinata ad una serie di valutazioni oggettive di tipo selettivo. Fra queste valutazioni rientrerebbe anche un test specifico, a seguito del quale dovrebbero risultare positivi almeno due dei seguenti criteri: il primo consistente in una significativa operatività, per frequenza e dimensione, del cliente ( con almeno dieci operazioni al trimestre nell’ultimo anno); la seconda riferita al valore degli strumenti finanziari e della liquidità detenuti che non deve essere inferiore ai 500 mila euro; il terzo elemento consiste in una qualificata presenza nel settore, per almeno un anno.
   Come appare evidente, la stessa direttiva àncora ad una serie di parametri, molto più efficaci, l’inclusione nella categoria di “operatori qualificati” (o clienti professionali) di soggetti che non possono ex ante essere considerati tali, a differenza di quanto prevede oggi il Regolamento Consob.
Ciò dovrebbe, con tutta evidenza, limitare o scongiurare gli effetti negativi che criteri relativistici e del tutto inefficaci hanno permesso, ad esempio, a soggetti estranei al mercato finanziario di divenire “operatori qualificati”, mettere a disposizione dell’intermediario determinati capitali, investiti poi in strumenti derivati e subire ingenti perdite, tanto più eclatanti in quanto si tratta di denaro appartenente alla cosa pubblica.
   È il caso di piccoli (e meno piccoli) Comuni, oltre che di cinque Regioni italiane le quali, a seguito dei minori trasferimenti finanziari da parte dello Stato, si sono trovati costretti a ricorrere in vari modi all’acquisizioni di capitali sul mercato finanziario (anche per “coprirsi” dalla variabilità degli interessi su mutui stipulati). Anche per questi enti territoriali si è proposto il problema della dichiarazione di “operatori qualificati”, il che, date le finalità eminentemente pubblicistiche di tali enti, appare quanto mai paradossale. A tale proposito, la medesima Corte dei Conti, in sede di audizione parlamentare, ha evidenziato «la posizione debole degli enti di piccole e media dimensioni, per i quali dovrebbe essere assolutamente vietata la autocertificazione di “operatore qualificato”». Ma anche per gli enti regionali, sostiene la Corte dei Conti, «le dichiarazioni rese dai responsabili (…) “di comprendere, valutare, accettare i rischi connessi all’operazione” non persuade né è da condividere. A fronte di perdite potenzialmente illimitate, tali dichiarazioni vengono a configurare un esonero di responsabilità a fronte di operazioni delle quali, proprio la CONSOB, ritiene difficoltoso o impossibile apprezzare il valore e valutare l’effettiva esposizione al rischio» (20).

 

NOTE

   (1) Il risparmio, quale variabile macroeconomica, consente l’accantonamento di risorse monetarie che il circuito economico destina, mediante il tasso di interesse (che, per molti versi, può essere considerato il prezzo di equilibrio della domanda e dell’offerta di moneta, per quanto regolamentato dagli istituti bancari centrali) agli investimenti. Questi ultimi, a loro volta, consentono sia la stabilità della produzione (investimenti fissi, cioè gli ammortamenti), sia il suo aumento (investimenti variabili). Un sistema economico efficiente, dunque, dovrebbe avere una giusta redistribuzione di risorse monetarie fra consumi e risparmi: i primi servono a sostenere la produzione; i secondi a finanziare gli investimenti produttivi. Vedi, in un senso interpretativo differente della nozione di “risparmio”, esclusivamente inteso quale «elemento dell’economia individuale delle famiglie e non un elemento di analisi macroeconomica», G. VISENTINI, Credito e risparmio, in Enc. giiuridica Treccani, vol. X, Roma, 1990, § 2.

   (2) Nella nozione costituzionale di “credito” rientra quella normalmente utilizzata dagli economisti, e quindi corrispondente alle attività finanziarie in senso lato. Quindi tale nozione comprende «tutte le forme di investimento finanziario, anche partecipativo e di rischio, come le azioni e i titoli di credito partecipativi, rappresentativi della proprietà aziendale» (G. VISENTINI, Credito e risparmio, cit., § 2). Vedi sulla nozione di credito e risparmio, F. MERUSI, Commento all’art. 47, in Comm. Cost., diretto da G. Branca, Rapporti economici, t. III, Bologna-Roma,, Zanichelli, 1980, pp. 79 ss.

   (3) Vedi, per una disamina storico-costituzionale, soprattutto in relazione alla teoria delle “Convenzioni costituzionali”, P. HABERLE, Stato costituzionale, I, Principi generali, in Enc. Giur. Treccani, vol. XXX, Roma, 2000, § 1 ss.

   (4) Vedi, per quanto concerne gli aspetti tecnici del mercato dei derivati, F. CAPUTO NASSETTI, Trattato sui contratti derivati di credito: aspetti finanziari, logiche di applicazione, profili giuridici e regolamentari, Milano, EGEA, 2001, pp. 68 ss.; E. GIRINO, I contratti derivati, Milano, Giuffrè, 2001, pp. 18 ss.

   (5) G. FREGA, Natura e funzione dei contratti finanziari "derivati", in www.dirittosuweb.com, 1999.

   (6) La definizione e il riferimento ad un valore sottostante, in relazione allo schema negoziale “tipico” di questi strumenti sono presenti anche in Circolare della Banca d'Italia del 21 aprile 1999 n. 229. Sul punto vedi anche, F. CAPUTO NASSETTI, Trattato sui contratti derivati di credito: aspetti finanziari, logiche di applicazione, profili giuridici e regolamentari, cit., pp. 55 ss.

   (7) In realtà, in dottrina non vi è alcun accordo sulla natura giuridica dei contratti derivati, né vi può essere certezza sul fatto che essi siano genericamente ascrivibili all’area dei contratti collegati. Anche questi ultimi, infatti, per quanto abbondantemente analizzati dalla dottrina e dalla giurisprudenza, non sono interpretati unitariamente. Vedi sul punto, C. DI NANNI, Collegamento negoziale e funzione complessa, in Riv. dir. comm., 1977, pp. 279 ss.

   (8) Più in particolare, può dirsi che «la funzione economico-giuridica risiede nella finalità di controllare i rischi connessi alle variazioni nel tempo dei rapporti di cambio tra le valute o di tasso di interessi e, pertanto, si concreta nel depotenziare le incertezze connesse ai costi dei finanziamenti ricevuti oppure ai costi delle variazioni di cambio. A dire il vero, però, tale funzione è, ad oggi, alquanto sfumata; tali contratti, infatti, vengono utilizzati non solo per gestire un rischio ma anche per speculare, per generare profitti» (in tali termini, G. FREGA, Natura e funzione dei contratti finanziari "derivati", cit., p. 1). Tale ultima considerazione viene espressa anche da esperti della “Confindustria” nell’audizione della VI Commissione della Camera dei deputati. Secondo Confindustria, infatti, «i contratti derivati vengono utilizzati per effettuare operazioni finanziarie di copertura dei rischi legati alla variazione dei tassi di interesse e dei cambi ma anche per operazioni speculative, che consistono sostanzialmente in scommesse su variazioni dei prezzi delle merci, delle valute, dei tassi di interesse e di altre attività finanziarie allo scopo di ricavarne un profitto. Infine, possono essere realizzate operazioni di arbitraggio su derivati attraverso l’acquisto e la vendita della stessa attività su due diversi mercati, con l’obiettivo di conseguire un profitto garantito da differenziare fra i due prezzi» (vedi audizione di Francesco Bellotti, Fabrizio Carotti e Patrizia La Monica del 14 dicembre 2004, in www.confindustria.it/Comunica/audpar.nsf).

   (9) Per un’analisi funzionale di queste figure contrattuali, vedi E. GERETTI, Strumenti e contratti derivati: mercati e caratteristiche, Udine, Forum, 2001, pp. 7 ss.

   (10) Per un’analisi compiuta di questi strumenti, vedi F. CAPUTO NASSETTI, Trattato sui contratti derivati di credito: aspetti finanziari, logiche di applicazione, profili giuridici e regolamentari, cit., pp. 455 ss.

   (11) Il principio appare coerente con la stessa struttura del mercato finanziario, in quanto tiene conto del fatto che quest’ultimo non può del tutto essere considerato come un mercato unitario, con prodotti omogenei, che presentano lo stesso livello di rischio. La questione è stata ripetutamente affrontata dagli analisti, soprattutto in riferimento alle politiche di vigilanza. Ciò che rileva è soprattutto la questione dei c.d. cluster markets, cioè i mercati per i quali ci si chiede se i prodotti offerti possano essere concepiti unitariamente, così come la loro domanda, o se, invece, presentino segmentazioni più o meno accentuate. Per questo motivo si parla di “mercato a grappoli”. Il problema si pone soprattutto nelle legislazioni antimonopolistiche, dove le Autorità, in sede di istruttoria, devono innanzitutto stabilire (e parametrare) il cosiddetto “mercato rilevante”. Sui cluster markets vedi in particolare: M. LAMANDINI, Le concentrazioni bancarie. Concorrenza e stabilità nell’ordinamento bancario, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 119 ss. Vedi anche, I. AYRES, Rationalizing Antitrust Cluster Markets, in «Yale Law Journal», vol. 95, n. 1, pp. 109 sgg. Come esempio, l’autore americano propone quello dell’automobile e della benzina che serve ad alimentarla.

   (12) Il rispetto del principio di corrispondenza della generale attività di investimento alla natura e dimensione dell’investitore si riflette, inevitabilmente, secondo la dottrina dominante, anche sulle tipologie contrattuali adottabili. Vedi su questo punto, E.GABRIELLI-R.LENER, Mercati, strumenti finanziari e contratti di investimento, in ID. (a cura di), I contratti del mercato finanziario, «Trattato dei contratti», diretto da P. Rescigno, E. Gabrielli, I, Torino, Utet, 2004, pp. 47 ss.

   (13) Un esempio di tale diversificazione delle tutele è dato dagli artt. 30 ss TUIF, laddove, per i prodotti finanziari offerti fuori sede, ove essi siano proposti ad un operatore qualificato, non si devono applicare quelle norme più rigorose dettate in via generale per questa tipologia di offerta, richiedendo la presenza di un promotore finanziario e obblighi informativi molto stringenti.

   (14) Vedi per quanto concerne gli obblighi generali di informazione da prospetto informativo da parte degli intermediari e degli emittenti, F. CARBONETTI, I contratti di investimento, Milano, 1992, pp. 91 ss. In dottrina si sottolinea la sostanziale derivazione dei doveri di informazione dall'esperienza degli investiment contracts nell'ordinamento nordamericano (sul punto, vedi S. PAZZAGLIA, La disciplina statunitense del prospetto informativo, in Le soc., 1998, 81, 920 ss.).Gli investiment contracts devono essere intesi come contratti, operazioni o schemi per mezzo dei quali «una persona investe il suo denaro in un'impresa comune ed è indotta ad attendersi profitti esclusivamente dall'attività del promotore o di un terzo, senza che egli possa gestire o controllare, se non in modo non determinante, la gestione che del suo investimento viene fatta e dalla quale è ragionevole attendersi un profitto, essendo irrilevante che le partecipazioni nell'impresa siano evidenziate da certificati formali o da interessi nominali nei beni materiali impiegati nell'impresa» (C. RABITTI BEDOGNI, Valori mobiliari, I, in Enc. giur. Treccani, vol. XXIX, Roma, 1992, § 3).

   (15) In altri termini, si tratterebbe di una dichiarazione ricettizia, avente valore di “autocertificazione”, la cui mendacità eventuale integrerebbe la violazione, da parte dell’amministratore, di quei doveri di buona, sana e prudente gestione della compagine sociale e, dunque, in quanto tale, sufficiente per esperire un’azione sociale di responsabilità da parte dei soci o degli altri amministratori (nonché dei soggetti deputati al controllo contabile).

   (16) V. VITO CHIONNA, L’accertamento della natura di “operatore qualificato” del mercato finanziario rispetto ad una società, in Banca Borsa e Titoli di Credito, N. 1, 2005, p. 45.

   (17) V. VITO CHIONNA, L’accertamento della natura di “operatore qualificato” del mercato finanziario rispetto ad una società, cit., p. 46. L’autore, peraltro, assai giustamente, afferma che nella disposizione regolamentare in oggetto si appalesa un’evidente aporia rispetto ad altre norme del Regolamento stesso, soprattutto rispetto alla norma, da noi già evidenziata, che valorizza il principio secondo cui si devono considerare nella loro giusta dimensione le diverse categorie di investitori, a seconda della qualità e professionalità dell’attività svolta. L’autore sottolinea un altro paradosso che può verificarsi nel vigore della disposizione regolamentare. Il fatto, cioè, che la dichiarazione del rappresentante legale della società attesti la comprovata esperienza e professionalità della persona giuridica in materia di negoziazioni di valori mobiliari fondando la propria attestazione sull’esistenza di determinate conoscenze e professionalità da parte del .personale dipendente. Ma tale parametro, come ovvio, è del tutto transitorio, in quanto le risorse umane presenti nell’impresa possono trasferirsi altrove, vanificando in questo modo il valore dell’attestazione.

   (18) Trib. Milano, 3 aprile 2004, ord., in Banca Borsa e Titoli di Credito, n. 1, 2005. Il giudice di Milano ha significativamente definito la dichiarazione di cui all’art. 31, 2° comma Reg. Consob n. 11522 quale “dichiarazione autoreferenziale”.

   (19) Vedi su questo punto, l’audizione del Funzionario Generale della Consob Antonio Rosati, in VI Commissione finanze Camera dei deputati, 12 gennaio 2005, p. 12.

   (20) Audizione del Presidente della Corte dei Conti alla VI Commissione Finanze della Camera dei deputati, 20 gennaio 2005, p. 19.

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