il diritto commerciale d’oggi
    V.2 – febbraio 2006

STUDÎ & COMMENTI

 

GIULIANA SCOGNAMIGLIO

I gruppi di imprese nella recente legislazione
“in materia di occupazione e mercato del lavoro” (d. lgs. n. 276/2003) *

 

   1.
   L’art. 31 del d.. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, contenente attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30, è intitolato ai “gruppi di impresa” (con la parola “impresa” declinata, inusitatamente, al singolare). La rubrica della disposizione è solenne ed altisonante, in quanto ha riguardo, e sembra volerlo abbracciare in tutta la sua complessità, ad un fenomeno di grande importanza sul piano socio-economico, che solleva – com’è noto – rilevanti difficoltà d’inquadramento e di sistemazione dal punto di vista giuridico.
   Il tenore della disposizione, che attua il principio direttivo enunciato nell’art. 2, lettera m) della citata legge di delega, rimane peraltro al di sotto delle aspettative suscitate dalla sua intitolazione: lungi dal porre mano alla disciplina dei gruppi, e specificatamente – considerata la sedes materiae – alla disciplina dei profili giuslaburistici generali del fenomeno (1), il legislatore si è prefisso infatti un obiettivo ben più circoscritto: quello di statuire in punto di “delegabilità” alla società capogruppo, da parte delle società da essa controllate o ad essa collegate, degli adempimenti previsti dall’art. 1 della legge 11 gennaio 1979, n. 12, introducendo così una (nuova) deroga al principio della riserva dei suddetti adempimenti alla categoria professionale dei consulenti del lavoro (2).
   La medesima statuizione è ribadita con riferimento ai consorzi di imprese, rispetto ai quali si stabilisce (comma 2) che possono assolvere agli adempimenti di cui al citato art. 1 della l. n. 12/1979, per conto degli imprenditori consorziati, direttamente ovvero delegandone l’esecuzione ad una delle società consorziate. La regola è espressamente dichiarata applicabile anche ai consorzi costituiti in forma di società cooperativa, previsti dall’art. 27 del d. lgs. c.p.st. 14 dicembre 1947, n. 1577.
   L’art. 1 delle legge n. 12/1979 ha riguardo, a sua volta, all’insieme degli adempimenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza, che gravano sull’imprenditore o in genere sul datore di lavoro, in relazione ai lavoratori dipendenti da lui occupati. La cura di detti adempimenti (ad esempio, elaborazione delle buste paga; gestione dei periodi assenza dal lavoro per malattia o maternità; ecc.) può essere, alla stregua della disposizione citata, assunta direttamente dal datore di lavoro, che a sua volta può porvi mano in via diretta ovvero per mezzo di propri dipendenti, ovvero assunta da coloro che siano iscritti nell’albo dei consulenti del lavoro, essendo muniti dell’apposita abilitazione professionale, nonché da coloro che siano iscritti negli albi degli avvocati e procuratori legali, dei dottori commercialisti, dei ragionieri e periti commerciali, “i quali in tal caso sono tenuti a darne comunicazione agli ispettori del lavoro delle province nel cui ambito territoriale intendono svolgere gli adempimenti di cui sopra”.
   Rispetto al contenuto dell’art. 1 della citata legge del 1979, la portata innovativa della disposizione più recente consiste nel riconoscimento esplicito della legittimità di una peculiare modalità organizzativa degli adempimenti in questione, consistente nel loro accentramento, rispettivamente, presso la capogruppo (in rapporto agli adempimenti relativi a società controllate o collegate), ovvero presso il consorzio o una delle società ad esso appartenenti (in rapporto agli adempimenti relativi alle imprese consorziate). L’accentramento può essere, e nella fisiologia del fenomeno è, funzionale alla realizzazione di sinergie fra le diverse società, appartenenti al medesimo gruppo ovvero consorziate, o al conseguimento di economie di scala, derivanti dalla possibilità, ad esempio, di avvalersi di un medesimo software e di adibire agli adempimenti de quibus un’unica persona o un unico ufficio, piuttosto che una pluralità di addetti o di uffici collocati ciascuno in una diversa società del gruppo.
   In questo senso, la disposizione considerata esprime un favor, e tende comunque a svolgere una funzione incentivante, nei riguardi di modelli organizzativi dell’iniziativa economica che si caratterizzano per il fatto appunto di consentire lo svolgimento in maniera accentrata di determinate funzioni gestorie.
   Si potrebbe osservare che di un esplicito riconoscimento della legittimità dell’accentramento presso la società capogruppo, ovvero presso una delle società consorziate, degli adempimenti relativi ai rapporti di lavoro subordinato facenti capo alle diverse società del gruppo o del consorzio non vi era in realtà bisogno. Infatti, per quanto concerne i gruppi di società, si deve tener conto della “svolta” impressa alla storia del problema (3) dal già citato d. lgs. n. 6/2003, sulla riforma organica del diritto delle società di capitali e cooperative: il riconoscimento (cfr. art. 2497 cod. civ., nel testo introdotto dal citato decreto legislativo) della legittimità – in sé – dell’attività di direzione e coordinamento esercitata dalla c.d. capogruppo rispetto alle società controllate implica e comporta che sia riconosciuto come legittimo lo svolgimento in forma accentrata di funzioni aziendali nell’ambito del gruppo, lo svolgimento – cioè – di dette funzioni da parte di una delle imprese appartenenti al gruppo (non necessariamente da parte dell’impresa che ne è posta al vertice) in favore (anche) di tutte le altre. Parimenti, con riferimento ai consorzi, l’art. 2602 cod. civ., nel testo modificato dalla l. 10 maggio 1976, n. 377, identificando l’oggetto del contratto consortile nell’istituzione di un’organizzazione comune per la disciplina e lo svolgimento di determinate fasi delle imprese consorziate, implicitamente riconosce la legittimità di un modello organizzativo nel quale una o più fasi o funzioni aziendali sono, appunto, svolte in forma accentrata dall’organizzazione consortile a favore o nell’interesse delle diverse imprese facenti parte del consorzio stesso.
   Tuttavia, l’esigenza avvertita dal legislatore, e che già era alla base di un orientamento ministeriale (4) affermatosi negli anni immediatamente antecedenti l’emanazione del d. lgs. n. 276/2003, era quella di fornire una sorta di interpretazione autentica, o – forse più esattamente – un’interpretazione evolutiva, del disposto dell’art. 1 legge n. 12/1979.
   Si trattava in particolare di chiarire che quel disposto – riservando gli adempimenti amministrativi e contabili in materia di lavoro, assistenza e previdenza, relativi al personale dipendente, alternativamente all’imprenditore-datore di lavoro, ovvero a professionisti esterni all’impresa (ma) muniti di una specifica abilitazione (5) – non è di per sé di ostacolo all’affermarsi di modelli organizzativi nei quali detti adempimenti, invece di essere assolti direttamente dal singolo datore di lavoro, ovvero per suo conto da un singolo professionista esterno, vengono accentrati, per conto di una pluralità di imprese (le quali sono e restano) giuridicamente distinte, in una di esse, che non è (o non è necessariamente) quella a cui fanno capo altresì i rapporti di lavoro subordinato. D’altro canto, l’accentramento, sicuramente consentito a tenore dei primi due commi della disposizione in commento, della specifica funzione aziendale (relativa allo svolgimento degli adempimenti previsti dall’art. 1 legge n. 12/1979), non modifica la, né incide in alcun modo sulla, titolarità delle “obbligazioni contrattuali e legislative”, scaturenti dai rapporti di lavoro subordinato. In tal senso statuisce infatti, sia pure attraverso una formulazione sintatticamente contorta e lessicalmente poco elegante, il terzo comma dell’art. 31: disposizione, quest’ultima, ispirata verosimilmente dal timore che nella riconosciuta legittimità dello svolgimento in forma accentrata di una funzione aziendale relativa al personale dipendente potesse ravvisarsi un argomento idoneo a supportare l’assunto dell’accentramento altresì della titolarità dei rapporti di lavoro, e dei corrispondenti obblighi, in un “super-soggetto”, costituito dall’insieme delle imprese appartenenti, rispettivamente, al gruppo ovvero al consorzio.

   2.
   L’art. 31 detta, come già si è osservato, regole applicabili ai gruppi di imprese (a cui testualmente si riferisce la rubrica della disposizione) ed ai consorzi. È il caso allora di spendere qualche considerazione in merito alla identificazione dell’ambito soggettivo di applicazione delle regole suddette.
   Per quanto riguarda i gruppi, il primo comma dispone che essi debbano individuarsi alla stregua dell’art. 2359 cod. civ., nonché del decreto legislativo 2 aprile 2002, n. 74, che, in attuazione della direttiva del Consiglio n. 94/45/CE, disciplina l’istituzione di un comitato aziendale europeo o di una procedura per l’informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensioni comunitarie.

   a) L’art. 2359 cod. civ. enuncia, com’è noto, sia la nozione di società controllata, sia quella di società collegata. In particolare, si considerano controllate le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria (art. 2359, primo comma, n. 1: c.d. controllo interno di diritto), ovvero di voti che, se non corrispondono alla maggioranza numerica, sono in ogni caso sufficienti ad esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria (art. 2359, primo comma, n. 2: c.d. controllo interno di fatto), computandosi, sia nel primo, sia nel secondo caso, anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta, ed escludendosi, per converso, i voti spettanti per conto di terzi.; ancora, si considerano controllate le società che risultano sottoposte all’influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa (c.d. controllo esterno o contrattuale: art. 2359, primo comma, n. 3).
   Per società collegate s’intendono invece quelle sulle quali un’altra società esercita un’influenza notevole; questa si presume quando si dispone di almeno un quinto dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria, ovvero di un decimo dei voti se la società ha azioni quotate in borsa. In virtù del richiamo all’art. 2359 cod. civ. nella sua globalità, la disposizione che si commenta sembrerebbe legittimare l’assunto che, alla sua stregua, gruppo vi è anche quando il “cemento” fra le diverse società sia costituito da una semplice relazione di collegamento fra le medesime (6). Tale assunto non pare incontrovertibile, perché – accanto al dato testuale del richiamo integrale dell’art. 2359 cit. – vi è anche l’altro, che consiste nell’uso, da parte del legislatore, dell’espressione gruppo. Ora, secondo il “comune sentire”, corroborato altresì da molteplici indici di diritto positivo (7), ciò che fa di una serie di imprese, giuridicamente distinte ed economicamente collegate, un gruppo, e cioè un insieme funzionalmente coordinato per abbracciare il quale ha senso che si adoperi un’espressione sintetica (“gruppo”), è appunto l’influenza dominante dell’una sulle altre: influenza dominante che è la fonte di un potere di direttiva e di coordinamento, nel quale risiede uno dei caratteri tipici del fenomeno, come in fondo confermano – sia pure omettendo qualsiasi riferimento testuale al “gruppo” – le disposizioni degli art. 2497 e seguenti cod. civ., introdotte nel libro V del codice civile dalla recente riforma societaria.
   In altri termini, e da un punto di vista generale, è dubbio che l’impresa semplicemente “collegata” ad altre, ai sensi dell’ultimo capoverso dell’art. 2359 cit., possa considerarsi “impresa appartenente ad un gruppo”; ma è il caso di osservare altresì che, considerata la ratio della specifica disposizione, una lettura non restrittiva della nozione di gruppo, tale da includervi anche le società collegate che siano in qualche modo inserite nel reticolo dei rapporti di controllo fra più imprese determinate, appare del tutto innocua, se non addirittura preferibile all’altra (e vedi infatti quanto si osserva più avanti, nel § 3).
   Più difficile sarebbe invece, stando al tenore della disposizione, ammettere che il gruppo rilevante alla stregua di essa sia anche quello c.d. paritetico, in cui la direzione ed il coordinamento di più imprese si realizzano in assenza di un potere di influenza dominante dell’una sulle altre. È però da riconoscere che raggruppamenti di imprese aventi la struttura testé descritta potrebbero comunque fruire del regime di delegabilità degli adempimenti amministrativi e contabilità relativi al personale dipendente ove adottassero la forma giuridica del consorzio, sulla base della disposizione che appunto ammette a quel regime i consorzi (8).

   b) Mentre la disposizione codicistica di cui si è testé richiamato sinteticamente il contenuto ha riguardo esclusivamente al fenomeno del controllo intersocietario, il d. lgs. n. 74/2002 fa riferimento alla nozione di gruppo di imprese, definendo quest’ultimo come il “gruppo costituito da un’impresa controllante e dalle imprese da questa controllate” (art. 2, primo comma, lettera c). L’art. 3 del medesimo decreto definisce l’impresa controllante come quella che può esercitare un’influenza dominante su un’altra impresa qualificata “impresa controllata”. La possibilità di esercizio di un’influenza dominante viene presunta, salvo prova contraria, in capo ad un’impresa la quale ha, direttamente o indirettamente (per il tramite, cioè, di imprese controllate o di persone o enti interposti), nei confronti di un’altra impresa il potere di nominare più della metà dei membri del consiglio d’amministrazione, oppure dispone della maggioranza dei voti oppure detiene la maggioranza del capitale sottoscritto.
   Il quinto comma dell’art. 3 identifica i limiti della suddetta presunzione: i casi, cioè, in cui un’impresa non è considerata controllante rispetto ad un’altra in cui partecipa (“possiede pacchetti azionari”) in misura astrattamente rilevante ai fini del controllo. Si tratta del caso in cui la partecipazione è posseduta (ed i diritti di volto ad essa pertinenti vengono esercitati) da un’impresa bancaria, assicurativa o finanziaria “soltanto per favorire la vendita delle partecipazioni stesse, dell’impresa nel suo complesso o delle sue attività, di suoi rami, o di elementi del suo patrimonio” e a condizione che la vendita avvenga entro un anno o altro periodo di tempo determinato, a decorrere dall’iscrizione della partecipazione nel libro soci della partecipata; nonché del caso in cui la partecipazione faccia capo ad una società di partecipazione finanziaria (c.d. holding pura) ed i diritti di voto ad essa pertinenti vengano esercitati unicamente allo scopo di “salvaguardare il pieno valore” dell’investimento.
   Infine, dall’ambito di operatività della presunzione di esercizio di influenza dominante sono escluse, ai sensi del sesto comma dell’art. 3, le imprese in stato di insolvenza, che siano state sottoposte a procedure concorsuali.

   3.
   Com’è agevole rilevare, le due nozioni di “gruppo” che si ricavano rispettivamente dall’art. 2359 cod. civ. e dagli artt 2 e 3 del d. lgs. n. 74/2002 non sono perfettamente collimanti.
   Ai sensi della disciplina speciale (esterna cioè al codice civile), il c.d. controllo interno fatto, a cui ha riguardo, come si già ricordato, il n. 2 dell’art. 2359, 1° comma, cod. civ., non sussiste se non in capo alle imprese che, pur non disponendo della maggioranza assoluta dei voti esercitabili, hanno il potere di nomina di più della metà dei membri del consiglio di amministrazione di un’altra impresa; inoltre, per la disciplina speciale non sembra assumere rilievo la nozione di controllo in virtù di particolari vincoli contrattuali, enunciata al n. 3 del primo comma art. 2359. Ancora, e per fermarsi alle differenze maggiormente significative fra le due disposizioni, per l’una rileva, e per l’altra no, la nozione di società collegata, di cui sopra si è detto (§ 2, lettera a).
   Sorge allora l’interrogativo se, in presenza di tali differenze, si debba cercare di ritagliare una nozione di gruppo, rilevante agli effetti della disposizione in commento, che sia tale da abbracciare soltanto le aree comuni, e cioè le fattispecie considerate tanto dall’art. 2359 cod. civ., quanto dal d. lgs. n. 74/2002; o se non sia invece preferibile attribuire rilievo, ai fini dell’applicazione della disciplina contenuta nel primo comma dell’art. 31, a tutte le possibili configurazioni del gruppo, e cioè costruire la nozione rilevante per sommatoria delle fattispecie descritte nelle due disposizioni a cui l’art. 31 fa rinvio. In effetti, se la funzione dell’art. 31 è quella di eliminare gli ostacoli che potrebbero frapporsi (per via dell’art. 1 l. n. 12/1979, cit.) allo svolgimento in forma accentrata, ad opera di un soggetto non coincidente con il titolare dei rapporti di lavoro interessati, degli adempimenti relativi al personale dipendente, sembra preferibile optare per l’interpretazione che consente tale accentramento – valutato evidentemente in termini positivi dal legislatore, in quanto possibile fonte di economie e di sinergie – nella misura più ampia possibile: e cioè proporre una ricostruzione della nozione rilevante per sommatoria delle diverse fattispecie di collegamento (in senso atecnico) fra società.
   Per rimanere ancora per un momento sul terreno dell’analisi della fattispecie, conviene osservare che – sebbene il d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276 sia cronologicamente successivo al citato d. lgs. n. 6/2003 di riforma “organica” del diritto societario – nessun rinvio viene operato al capo IX del libro V del codice civile (artt. da 2497 a 2497-septies) che detta ex novo la disciplina delle società soggette all’altrui attività di direzione e coordinamento e della responsabilità connessa all’esercizio di detta attività, stabilendo, in particolare (art. 2497-sexies), una presunzione semplice di esercizio dell’attività di direzione e coordinamento delle società controllate da parte della società controllante e richiamando, ai fini della nozione di controllo e di società controllata, espressamente l’art. 2359 cod. civ. Dunque, la disposizione in commento sembra ignorare la “nuova” nozione legislativa di società soggette all’altrui direzione e coordinamento, contenuta nel citato d. lgs. n. 6/2003, che pure era stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana qualche mese prima dell’emanazione della legge Biagi. Anche in punto di tecnica legislativa si registra una notevole indipendenza nell’approccio al fenomeno dei gruppi da parte della disposizione più recente, rispetto a quella più risalente: mentre infatti la disciplina codicistica del fenomeno si caratterizza per la manifesta (e dichiarata: nella relazione ministeriale di accompagnamento allo schema di decreto legislativo delegato) propensione del legislatore ad astenersi dal fare uso del sintagma “gruppo di imprese” o “gruppo di società”, non sembra soffrire per nulla di una tale inibizione il decreto n. 276/2003, e specificamente la disposizione ora in esame, che ai “gruppi di imprese” è espressamente dedicata.
   Il silenzio serbato dalla disposizione in commento in merito alla fattispecie delle società soggette all’altrui direzione e coordinamento, di cui agli artt. 2497 e seguenti cod. civ., pone all’interprete l’interrogativo se la disciplina dettata dall’art. 31 possa trovare applicazione a detta fattispecie.
   Poiché la sussistenza di una relazione di controllo ai sensi dell’art. 2359 cod. civ. (e cioè di una relazione intersocietaria che l’art. 31 considera rilevante ai fini della regola da esso dettata) determina una presunzione semplice di esercizio, da parte della controllante sulle controllate, di un’attività di direzione e coordinamento, si deve assumere che la facoltà di delegare alla “capogruppo” gli adempimenti previsti dall’art. 1 della legge n. 12/1979 sia esercitabile anche nel caso in cui, non essendo stata vinta la presunzione posta dalla legge, risulti che la società controllante esercita un’attività di direzione e coordinamento delle controllate.
   Il dubbio può semmai investire la situazione in cui si abbia soggezione di società all’attività di direzione e coordinamento di una di esse, in assenza di una relazione di controllo: è il caso che si suole identificare con la locuzione “gruppo paritetico” ed è a questa fattispecie, o anche a questa fattispecie, che si riferisce, secondo un’opinione accreditata in dottrina, il disposto dell’art. 2497-septies cod. civ. In tale ipotesi direi anzi che il dubbio vada sciolto in senso negativo: l’art. 31 fa infatti riferimento, per il tramite del rinvio all’art. 2359 cod. civ. ed all’art. 2 del d. lgs. n. 74/2002, alla nozione di gruppo fondata sull’influenza dominante di un’impresa (organizzata o no in forma societaria) su altre imprese, per cui parrebbe da escludere la possibilità di “allargare” quel riferimento fino a ricomprendervi i gruppi c.d. paritetici.
   Si deve tuttavia osservare che, al di là del chiaro tenore testuale della disposizione in commento, non sembrano sussistere argomenti di carattere sostanziale (fondati cioè sulla logica del sistema, ovvero sulla ratio della disciplina) idonei a suffragare l’assunto secondo cui la “delega” degli adempimenti relativi al rapporto di lavoro non sarebbe ammissibile nell’ambito di quei fenomeni di aggregazione o di collegamento/coordinamento tra imprese riconducibili allo schema del c.d. gruppo paritetico. Al contrario, un argomento idoneo a suffragare l’assunto opposto è rinvenibile, a mio avviso nel secondo comma della disposizione in esame, che ha riguardo, com’è noto, ai consorzi. Ora, giuridicamente il consorzio è fattispecie distinta e non confondibile con quella del gruppo paritetico: si indica infatti con tale termine l’aggregazione fra imprese costituita sulla base di un apposito contratto, con il quale “più imprenditori istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese” (cfr. art. 2602 cod. civ.). Tuttavia, non può negarsi che le due fattispecie oggetto del confronto presentano più di un punto di contatto: in entrambe, l’aggregazione di una pluralità d’imprese, ciascuna delle quali conserva la sua autonomia giuridica, avviene – per così dire – su un piede di parità, essendo esclusa l’influenza dominante dell’una sulle altre; l’assoggettamento di ciascuna e di tutte a determinati vicoli di comportamento, finalizzati al conseguimento di obiettivi economico-strategici d’interesse comune, avviene su base contrattuale, mancando, per ipotesi, il potere dell’una di influenzare e condizionare le altre.
   Dunque, se la “esternalizzazione”, rispetto all’impresa datrice di lavoro, degli adempimenti previsti dall’art. 1 della legge n. 12/1979 è consentita espressamente (dal secondo comma della disposizione in esame) rispetto ad una delle due fattispecie che si stanno confrontando, sarebbe arduo sostenere una soluzione opposta (addirittura di “divieto” dell’esternalizzazione”) con riferimento all’altra. Nell’un caso come nell’altro, la funzione aziendale relativa all’espletamento di tutti gli adempimenti contabili ed amministrativi che concernono i rapporti di lavoro subordinato, potrà essere attribuita – per “delega” delle altre imprese – ad una di esse, oppure – nel caso in cui sia stata contrattualmente istituita un’organizzazione comune, come di regola avviene nel consorzio, potrà essere attribuita a detta organizzazione comune, che la svolgerà per conto di tutte le imprese aderenti all’aggregazione.
   Tornando per un momento all’ipotesi in cui invece un rapporto di controllo fra due o più società sussiste, è il caso di domandarsi (pur avvertendo tuttavia che l’interrogativo interessa maggiormente il versante civilistico dell’interpretazione delle disposizioni codicistiche in tema di direzione e coordinamento di società, piuttosto l’esegesi della disposizione in commento) se la “delega” alla capogruppo relativamente all’espletamento degli adempimenti in materia di lavoro, previdenza, eccetera, costituisca indice dell’esercizio, da parte della capogruppo, di un’attività di direzione e coordinamento delle controllate, e renda perciò più difficile, addirittura di fatto escluda la possibilità di una prova contraria all’esistenza di una siffatta attività di direzione e coordinamento.
   Se si conviene che l’assolvimento in forma accentrata degli obblighi amministrativi, previdenziali, retributivi inerenti ai rapporti di lavoro subordinato, che è il fenomeno considerato dalla disposizione in esame, attiene ai profili materiali ed esecutivi della gestione dei rapporti di lavoro nell’impresa, che possono non avere alcun punto di contatto con l’elaborazione delle strategie di coordinamento e direzione politica unitaria delle società del gruppo, per esempio in materia di gestione del personale, deve affermarsi che l‘adozione di un siffatto criterio di accentramento della funzione aziendale de qua non esclude la possibilità della prova contraria in merito alla sussistenza in concreto della fattispecie “direzione e coordinamento di società”.
   Altrimenti detto, è possibile che l’accentramento a livello di gruppo degli adempimenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale non implichi e perciò non manifesti la soggezione delle società controllate alla eterodirezione della società presso la quale vengono accentrati quegli adempimenti; ma è ancor più plausibile che, al contrario, il criterio dello svolgimento in forma accentrata venga adottato non solo per gli adempimenti, essenzialmente materiali e di natura amministrativa o “burocratica” a cui ha riguardo l’art. 1 della legge n. 12/1979, ma per la funzione aziendale nel suo complesso, e cioè per l’intera politica del personale: funzione aziendale che comprende ed investe le decisioni in materia di selezione, formazione, assunzione, organizzazione della forza lavoro impiegata nelle diverse società in cui il gruppo si articola. In tale ipotesi potrebbe certamente discorrersi di direzione e coordinamento delle diverse società controllate, ed invocarsi di conseguenza l’applicazione della disciplina dettata negli artt. 2497 e seguenti cod. civ., sia pure limitatamente alla funzione imprenditoriale testé richiamata (quella che concerne il complesso delle decisioni in materia di politica del personale).

   4.
   È il caso a questo punto di accingersi ad un più preciso inquadramento giuridico del rapporto avente ad oggetto la “delega” degli adempimenti relativi al personale dipendente.

   4.1. A tale scopo, conviene spendere innanzi tutto qualche riflessione in merito ai soggetti del rapporto di “delega” disciplinato, in verità in maniera del tutto scarna e succinta, dalla disposizione in commento.
   Alla stregua del tenore letterale dell’art. 31, 1° comma, il rapporto sembrerebbe intercorrere e stabilirsi fra il “gruppo” da un lato, la “società capogruppo”, in veste di “delegata”, dall’altro.
   Per quanto concerne il primo termine del rapporto, la lettera della disposizione va certamente “forzata”, perché – com’è noto – il gruppo di società non rileva allo stato, per il nostro ordinamento giuridico, come centro d’imputazione di rapporti o come titolare di doveri o di poteri o di facoltà: la facoltà di avvalersi dello strumento qui denominato “delega” per lo svolgimento in forma accentrata di determinati adempimenti in materia di rapporti di lavoro non può pertanto essere riconosciuta al gruppo, bensì semmai, ed esclusivamente, alle singole società del gruppo.
   Per quanto concerne poi il lato passivo del rapporto, non è facile individuare la ragione giustificatrice della regola per cui il ruolo di destinataria della “delega” potrebbe essere attribuito esclusivamente alla “società capogruppo”, come sembrerebbe suggerire il tenore letterale della disposizione in commento.
   Il rilievo vale in una duplice direzione. Intanto, non sembrerebbe giustificata l’esclusione della possibilità di avvalersi del modello organizzativo in questione (e cioè della facoltà di delega alla capogruppo degli adempimenti relativi al perdonale dipendente) per i gruppi al cui vertice non si ponga una società, bensì piuttosto un centro di imputazione della titolarità di partecipazioni in altre società … diverso dalla società: si pensi, per addurre solo un esempio, a quei gruppi che hanno al proprio vertice imprese individuali, o enti pubblici o enti privati (associazioni, fondazioni) divers i comunque dalle società. Se queste considerazioni sono fondate, il riferimento testuale alle “società” capogruppo andrebbe letto come riferimento al soggetto al quale in ultima analisi si imputa la titolarità delle partecipazioni nelle diverse società del gruppo.
   Sotto un diverso profilo, una volta assunta, a livello di gruppo, e secondo le regole organizzative che il gruppo si è dato o che di fatto osserva, la scelta dell’accentramento degli adempimenti in questione, parrebbe del tutto indifferente – e dal punto di vista della disciplina giuslaburistica, e da quello della disciplina civilistica del fenomeno – che, per effetto ed in conseguenza di una siffatta scelta, gli adempimenti vengano materialmente localizzati in una oppure altra delle società in cui il gruppo si articola, e così in una delle controllate, o nella società o ente posto all’apice della catena dei controlli intersocietari. A seconda, come si diceva poc’anzi, delle regole organizzative che il gruppo formalmente si è dato (ad esempio attraverso un apposito regolamento interno) o che di fatto osserva, si può pensare ad un fenomeno di scelta concordata e convergente delle diverse società ad esso appartenenti (scelta adottata, ad esempio, nell’ambito di un “comitato di gruppo”o di un consesso comunque denominato che riunisca gli esponenti dell’amministrazione di vertice delle diverse società), oppure ad un fenomeno di direttiva proveniente dalla società od ente capogruppo; nel primo caso la scelta espressa e condivisa dalle diverse società a livello di comitato di gruppo può indirizzarsi nel senso di affidare il compito dello svolgimento in forma accentrata della funzione aziendale a cui ha riguardo l’art. 31 da parte della capogruppo, o, alternativamente, di altra società individuata nell’ambito del gruppo; nel secondo caso, la stessa capogruppo, nell’emanare la direttiva di accentramento, potrà avocare a sé la funzione che si vuole sia svolta in forma accentrata, ovvero indicare alle società controllate quella fra esse che dovrà assumersi il compito di provvedere agli adempimenti di cui all’art. 1 della legge n. 12/1979.
   La formula adoperata nel primo comma della disposizione in esame, là dove ha riguardo alla delega della funzione alla società capogruppo, andrà dunque letta come ammissiva della delega nei riguardi non solo della capogruppo, bensì di qualunque altra società del gruppo da questa indicata, ovvero designata dalla convergente manifestazione di volontà delle diverse società ad esso appartenenti. L’interpretazione opposta, verso la quale pure taluni inclinano (9), non sembra avere dalla sua argomenti diversi e più vigorosi di quello fondato sulla lettera della legge: detta interpretazione, oltre che denotare, come poc’anzi si osservava, una scarsa attenzione o una insufficiente sensibilità al concreto funzionamento ed alla concreta operatività dei gruppi societari, sembra sistematicamente smentita dal raffronto con la diversa regola enunciata con riferimento ai consorzi, la quale contempla la possibilità che la funzione di amministrazione del personale dipendente sia, nel consorzio, accentrata nell’organizzazione consortile comune, ovvero in una qualunque delle imprese consorziate,
   Con riferimento al consorzio, il capoverso dell’art. 31 deve leggersi come se prevedesse la possibilità di accentrare la funzione aziendale in questione in capo ad una delle società consorziate, su “delega” delle altre essendo a mio avviso improprio il riferimento letterale ad una delega da parte del “consorzio”, che – come tale – non potrebbe assumere determinazioni unilaterali in merito allo svolgimento di una funzione aziendale pertinente alle singole imprese consorziate; un’atra possibilità, pure contemplata dalla disposizione in commento, è che la delega di tutte le imprese consorziate converga sul consorzio, nel senso che l’organizzazione comune istituita con il contratto di cui al citato art. 2602 cod. civ. viene munita, sulla base di una determinazione proveniente dalle imprese aderenti, di un ufficio dedicato appunto agli adempimenti inerenti ai rapporti di lavoro subordinato.

   4.2. Quanto alla identificazione del tipo contrattuale a cui è riconducibile il conferimento della “delega” di cui all’art. 31, una dottrina (10) ha ritenuto di inferire, dalla circostanza che è stato adoperato il vocabolo “delegare” (art. 31, 1° comma) e si è fatto comunque riferimento al fenomeno dell’agire per conto di altri (art. 31, 2° comma), l’assunto che il rapporto in questione sia da ricondurre allo schema contrattuale tipico del mandato, disciplinato dall’art. 1703 e seguenti cod. civ.: e cioè al contratto con il quale “una parte si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra”.
   Tale assunto non sembra tuttavia convincente, in quanto pone un limite – non espressamente sancito, né logicamente o sistematicamente necessario – all’autonomia negoziale delle parti e alla loro libertà di scelta delle forme organizzative e delle formule contrattuali maggiormente adeguate alle caratteristiche del singolo caso. È perciò preferibile, a mio avviso, assumere che la disciplina dettata dall’art. 31 sia “neutra” rispetto allo schema negoziale in concreto utilizzato dalle parti per conseguire il risultato della esternalizzazione della funzione aziendale di cui si discorre da parte delle singole imprese aggregate in un gruppo o in un consorzio e del suo accentramento presso una di essa o presso un “ufficio” allocato nell’eventuale organizzazione comune del gruppo. Peraltro, è plausibile che il contratto in questione venga concretamente configurato come avente ad oggetto non tanto il compimento puntuale di uno o più atti giuridici per conto di una pluralità di centri di imputazione di rapporti di lavoro subordinato, bensì piuttosto la prestazione di un’attività complessa (qualificabile, in termini generali, come un servizio), consistente nella “gestione amministrativa” del personale, e cioè nell’espletamento di tutti gli adempimenti di carattere legale e burocratico, nonché nel compimento degli atti materiali (ad esempio, calcolo e stampa, mese per mese, delle buste paga; stampa periodica degli estratti contributivi, eccetera), che graverebbero altrimenti sui singoli datori di lavoro. È altresì plausibile che le parti imprimano al rapporto convenzionale fra di esse instaurato il carattere e la configurazione di un contratto di durata (11), destinato cioè ad avere uno svolgimento protratto nel tempo.
   È il caso di aggiungere che, qualunque sia lo schema negoziale concretamente adoperato – appalto di servizi (12), outsourcing, o altro) – è comunque presente, nel fenomeno considerato, il profilo dell’agire per conto d’altri (e vedi infatti, letteralmente, il capoverso dell’art. 31): ciò dipende dal fatto che l’attività dedotta come oggetto del contratto in esame non si risolve nella mera prestazione o fornitura o somministrazione di un servizio, bensì consiste anche nell’adempimento di obblighi di legge (i già ricordati adempimenti amministrativi, previdenziali, eccetera), che per legge appunto incombono al datore di lavoro, il quale risponde della loro esatta e tempestiva esecuzione (e si veda infatti il disposto dell’ultimo comma dell’art. 31, sul quale ci si soffermerà più avanti nel paragrafo 5).
   Ciò comporta, per esempio, che l’impresa o l’ufficio a cui la funzione sia stata attribuita o “delegata” assume responsabilità, nei confronti delle imprese deleganti, per lo svolgimento negligente della stessa, ed in particolare per l’omissione o la ritardata esecuzione di uno o di taluno degli adempimenti in cui essa si articola; nel senso, quanto meno che l’impresa “delegata” sarà tenuta verso le “deleganti” al risarcimento del danno da esse subito (condanna al pagamento di sanzioni pecuniarie o altro) in conseguenza dell’omissione ovvero del ritardo. In questo senso, e sotto questo profilo, può essere condiviso il richiamo ai principi regolatori del mandato e specificamente a quel criterio di diligenza (appunto, del mandatario: cfr. art. 1710 cod. civ.) che presiede a qualsiasi manifestazione dell’agire per conto altrui, e cioè a qualsiasi fenomeno di sdoppiamento fra il titolare dell’interesse e l’autore del comportamento.

   4.3. Ancora, occorre domandarsi quale sia il rapporto tra la disciplina in esame e le regole giuridiche, oggi enunciate nell’art. 2497 e seguenti cod. civ., che governano i rapporti tra le diverse imprese del gruppo. L’impressione che la lettura dell’art. 31 suscita è che possa affermarsi, anche in questo caso, una sostanziale neutralità o indifferenza della disciplina ivi dettata rispetto a quelle regole. Intendo in altri termini sostenere che la disposizione dell’art. 31 è, per esempio, “muta” rispetto ai profili economici del rapporto, la cui determinazione è del tutto lasciata al rapporto contrattuale onde scaturisce la “delega”; così come non si cura dell’assetto complessivo d’interessi contrattualmente convenuto, ed in particolare dell’equilibrio fra detti interessi. I profili da ultimo richiamati sono però, allo stato, oggetto di una specifica disciplina, contenuta essenzialmente nell’art. 2497 cod. civ. Pertanto, è da questa disciplina che si devono ricavare i criteri di valutazione della legittimità dell’assetto d’interessi concretamente posto in essere dalle parti.
   In particolare, l’art. 31 nulla stabilisce sul punto se l’esercizio della funzione aziendale delegata debba o no essere remunerato dal delegante: tuttavia dall’art. 2497, ed in generale dai principi che governano la disciplina civilistica dei gruppi d’imprese, è desumibile la regola per cui nessuna società del gruppo può essere indotta (da una direttiva della capogruppo, o sulla base di un contratto sinallagmatico a prestazioni corrispettive squilibrate) ad operare in perdita o comunque a sopportare sacrifici economici sproporzionati, deviando dallo scopo lucrativo che il nostro ordinamento giuridico le assegna (cfr. art. 2247 cod. civ.); a meno che quella medesima società non sia destinataria e beneficiaria di un c.d. vantaggio compensativo, di entità corrispondente al sacrificio o alla perdita patrimoniale subita (art. 2497, 1° comma, ultima proposizione cod. civ.).

   5.
   Il disposto del terzo ed ultimo comma persegue lo scopo di sgombrare il campo da un possibile equivoco, quello di cercare nelle disposizioni dei due commi precedenti la soluzione di un problema del tutto peculiare, che quelle disposizioni in realtà non affrontano affatto: precisamente, il problema della identificazione del soggetto titolare delle obbligazioni contrattuali e legislative derivanti dai rapporti di lavoro subordinato.
   Altrimenti detto: la delega, e cioè la esternalizzazzione della specifica funzione aziendale che concerne gli adempimenti contabili, previdenziali, amministrativi eccetera, inerenti ai rapporti di lavoro che fanno capo alle singole imprese, e l’accentramento di tale funzione in una o altra imprese appartenente al gruppo o al consorzio sono circostanze che non incidono e non influiscono sul criterio di individuazione del datore di lavoro, e cioè del soggetto che l’ordinamento investe degli obblighi derivanti per legge o per contratto dal rapporto di lavoro subordinato. Le peculiari modalità organizzative della funzione di amministrazione del personale, che l’art. 31 contempla e consente, riposano dunque su un accordo “ad efficacia esclusivamente interna fra consorziati e consorzio, ovvero tra soggetto appartenente al gruppo e società capogruppo”, in forza del quale “il datore di lavoro permane interamente responsabile nei confronti dei terzi, ivi inclusi i lavoratori, di eventuali errori ed omissioni ad opera della capogruppo del consorzio, la cui posizione giuridica è quella dell’ausiliario, ai sensi dell’art. 1228 cod. civ.” (13).
   La disposizione assume, più in generale, il significato di un caveat nei confronti di certe tendenze, talora emerse nella giurisprudenza di merito, a superare lo schermo delle soggettività giuridiche distinte, per imputare i rapporti di lavoro, e le obbligazioni che ne scaturiscono, ad un unico soggetto, identificato ora nel gruppo, ora nella società o ente capogruppo. Peraltro, un argine contro il diffondersi di siffatte tendenze è stato eretto nel corso degli anni dalla sezione lavoro della Corte Suprema, che – pur riconoscendo la rilevanza a determinati effetti anche giuridici del collegamento economico-funzionale fra imprese appartenenti ad un medesimo gruppo – ha recepito e ripetutamente avallato il principio per cui detto collegamento “non importa il sorgere di un autonomo soggetto di diritto poiché ogni persona giuridica conserva la propria autonomia” (14) e non determina perciò alcun fenomeno di imputazione unitaria dei diritti e degli obblighi (e specificatamente dei diritti e degli obblighi scaturenti dai rapporti di lavoro) ad un soggetto o comunque ad un centro di imputazione distinto e diverso dalle imprese collegate.
   Il limite all’efficacia del principio appena richiamato è segnato dalla «simulazione o preordinazione in frode alla legge degli atti costitutivi delle società del gruppo, mediante interposizioni fittizie ovvero reali ma fiduciarie, (….)» (15).
   Dette circostanze (la simulazione o la preordinazione in funzione elusiva di determinate disposizioni di legge) vanno dimostrate sulla base di indici obiettivi, quali, ad esempio l’unicità della struttura organizzativa e produttiva, l’integrazione fra le attività economiche esercitate dalle diverse imprese del gruppo ed il corrispondente interesse comune; il coordinamento tecnico, amministrativo e finanziario, funzionale al conseguimento di un obiettivo economico comune; la promiscua, contemporanea utilizzazione della manodopera da parte delle diverse imprese del gruppo (16). Siffatti indici possono denotare una utilizzazione impropria del modello organizzativo del gruppo (si suole infatti parlare, con riferimento alle ipotesi di cui si sta discorrendo, di pseudo-gruppi); una utilizzazione, cioè, che non persegue l’intento “virtuoso” di un incremento dei efficienza e redditività dell’azione coordinata delle diverse imprese, in quanto unitariamente dirette dalla capoguppo, bensì un intento di elusione o di aggiramento di disposizioni di legge e perciò, indirettamente e per q uanto qui più da vicino interessa, di compressione dei diritti dei prestatori di lavoro.
   A fronte di queste forme di utilizzazione impropria o anomala del modello del gruppo, e del disvalore che esse esprimono, è apparso allora ragionevole “squarciare il velo” delle personalità giuridiche distinte, e così per esempio ammettere il computo unitario dei dipendenti delle diverse società del gruppo, ai fini dell’applicazione di norme di legge “protettive” che presuppongo un determinato numero di dipendenti nell’azienda, oppure – lasciando intatta la distinzione delle persone giuridiche – affermare un principio di solidarietà delle diverse società negli obblighi derivanti dai rapporti di lavoro subordinati, ed in particolare nell’obbligazione retributiva, superando il dato formale dell’intestazione dei rapporti stessi ad una di esse, e facendo prevalere su di esso il dato economico-sostanziale della utilizzazione promiscua dei dipendenti nell’ambito di una organizzazione produttiva sostanzialmente unitaria.
   Il significato, se si vuole giuspolitico, della disposizione contenuta nell’ultimo comma della disposizione commentata, risiede in ciò, che si conferma il principio di separatezza come cardine del fenomeno dei gruppi societari e si riconosce che tale principio non viene scalfito, né messo in forse dalle disposizioni dei commi precedenti, e cioè dalla riconosciuta ammissibilità della “delega” o del decentramento di determinate funzioni gestorie all’interno del gruppo ed in direzione, in particolare, della società che ne è al vertice. Per implicito, si riconosce e si ribadisce altresì che l’elisione o il superamento di detto principio (con la conseguente affermazione di una distinta soggettività del gruppo, rispetto a quella delle società ad esso appartenenti, ovvero di una fattispecie di solidarietà, nelle obbligazioni scaturenti dal rapporto di lavoro, delle diverse società appartenenti al gruppo, considerate tutte alla stregua di beneficiarie o destinatarie sostanziali della prestazione del lavoratore formalmente dipendente da una di esse) hanno carattere eccezionale e possono essere giustificati soltanto dall’esigenza di far fronte a situazioni patologiche, ovvero ad utilizzazioni non fisiologiche e non virtuose del modello organizzativo del gruppo, ed in particolare del modello di organizzazione dell’impresa basato sulla direzione unica e coordinata di più soggetti giuridici e sull’accentramento in uno di essi di funzioni gestorie pertinenti anche agli altri.

* Questo scritto, che non è stato possibile inserire negli Studi in onore perché terminato quando essi erano già andati in stampa, è dedicato al professor Vincenzo Buonocore

 

NOTE

   (1) Una scelta siffatta sarebbe stata tutt’altro che illogica o scarsamente plausibile, anche in considerazione del contesto temporale, in cui si inscrive la disciplina dettata dal decreto legislativo richiamato nel testo: al momento della sua pubblicazione, infatti, era da pochi mesi apparsa nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, la legge delegata di riforma organica del diritto delle società di capitali e cooperative (d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), che introduce, com’è noto, per la prima volta nel nostro codice civile un apposito capo (il nono del libro quinto, corrispondente agli articoli 2497 e seguenti) dedicato alla disciplina del fenomeno dei gruppi (in termini più generali, della direzione e coordinamento delle società), nell’intento di fissare, innanzi tutto sul terreno civilistico, i principi generali della materia de qua. L’elaborazione di regole generali di disciplina dei gruppi dal punto di vista del diritto del lavoro avrebbe allora potuto svolgere un utile ruolo di “completamento” della disciplina civilistica generale, dettata dai citati artt. 2497 e seguenti cod. civ.
   Nel senso che la disposizione in commento non esprime “un disegno ampio di accoglimento della c.d. ‘concezione konzerndimensionale’ dei rapporti di lavoro, vedi N. RONDINONE, in La riforma del mercato del lavoro e i nuovi modelli contrattuali, Commentario al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, a cura di E. Gragnoli e A. Perulli, Cedam, Padova, 2004, sub art. 31, p. 450 s.; ivi, a p. 463 l’autore cit. conferma detta sua valutazione, e la completa con un apprezzamento positivo, motivato dalla considerazione che, ove fosse stata adottata quella concezione “konzerndimensionale”, si sarebbe corso il rischio di trattamenti discriminatori, ed in particolare si sarebbe determinato un eccesso di tutela dei lavoratori dipendenti da imprese appartenenti ad un gruppo rispetto a quelli che dipendono invece da un’impresa isolata. Ora, un tale apprezzamento non sembra del tutto condivisibile, e pare risentire della concezione, orami superata anche nel nosro Paese, secondo la quale la disciplina dei gruppi di imprese sarebbe, o dovrebbe essere, innanzi tutto o precipuamente una disciplina di protezione (s’intende, degli interessi maggiormente minacciati); tuttavia, nell’ottica, più moderna, di un diritto dei gruppi inteso come riconoscimento, da parte del legislatore, della rilevanza organizzativa – sotto taluni profili – del fenomeno in questione, una eventuale disciplina generale dei profili giuslavoristici dei gruppi di imprese (disciplina della quale esistono allo stato solo alcuni “frammenti”) non raggiungerebbe il suo scopo e non sarebbe equilibrata, ove generasse appunto la paventata “sovratutela” dei lavoratori addetti ad imprese di gruppo, rispetto agli altri, dipendenti da imprese “atomo”.

   (2) Cfr. nello stesso senso, ad esempio, N. RONDINONE, op. cit., p. 450.

   (3) Per l’esatta considerazione del fenomeno dei gruppi come “campo problematico”! prima ancora che come istituto giuridico, cfr. P. SPADA, Gruppi di società, in Riv. dir. civ., 1992, II, 221 ss.

   (4) Cfr. Circolare del Ministero del Lavoro, 15 marzo 2000, n. 14: in proposito, vedi G. MAUTONE, Lo svolgimento delle attività di amministrazione del personale da parte della capogruppo o dei consorzi, nel Commentario al D. Lgs 10 settembre 2003, n. 276, coordinato da F. Carinci, Milano, Ipsoa, 2004, sub art. 31, 226 ss. Si è osservato che, con il disposto dell’art. 31 si va ben oltre la disciplina pregressa e la relativa interpretazione ministeriale, laddove si ipotizzava unicamente che gli adempimenti di minore rilevanza, il calcolo e la stampa delle buste paga e degli estratti contributivi, potessero essere svolti da un “centro servizi”, ovvero da un’entità autonoma dalla capogruppo o dal consorzio, obbligatoriamente assistito da consulenti del lavoro”: cfr. G. MAUTONE, Il “correttivo” alla legge di riforma del mercato del lavoro, nel Commentario al D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, coordinato da F. Carinci, Milano, Ipsoa, 2005, 103-104.

(5) È il caso peraltro di ricordare che, di recente, la Commissione europea ha deciso di deferire l’Italia alla Corte di Giustizia in relazione alla disciplina che riserva ai soggetti iscritti nell’albo dei consulenti del lavoro la elaborazione e stampa dei cedolini paga del personale dipendente delle imprese: cfr. Comunicato stampa Commissione UE 21 dicembre 2005, n. IP/05/1663.

   (6) In tal senso, ad esempio, N. RONDINONE, op. cit., p. 453-454.

   (7) Cfr. G. SCOGNAMIGLIO, Autonomia e coordinamento nella disciplina dei gruppi di imprese, Giappichelli, Torino, 1996, p. 9 ss. e passim.

   (8) Si aderisce perciò, su questo punto, all’opinione di N. RONDINONE, op. cit., p. 455.

   (9) Cfr. G. MAUTONE, Lo svolgimento delle attività di amministrazione del personale da parte della capogruppo o dei consorzi, nel Commentario al D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, coordinato da F. Carinci, Ipsoa, Milano, 2004, 226 ss.; in termini ancora più decisi, A. MARESCA, Disposizioni in materia di gruppi di impresa e trasferimento d’azienda, ne Il nuovo mercato del lavoro: d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Commentario coordinato da M. Pedrazzoli, Zanichelli, Bologna, 2004, sub art. 31, 359 (“nessun dubbio che il soggetto passivo, cioè delegato, possa essere soltanto la capogruppo, e non una qualsiasi delle società appartenenti al gruppo”); e già G. NICCOLINI, Spunti sui profili commercialistici della riforma Biagi, in Dir. lav., 2003, I, 289; ma questi stessi autori si rappresentano le difficoltà a cui una siffatta lettua della disposizione in esame mette capo, per esempio là dove la capogruppo sia una holding “pura” e come tale non possa svolgere altra attività, se non quella di assunzione e gestione delle partecipazioni in altre imprese.

   (10) Cfr. A. MARESCA, Disposizioni in materia di gruppi di impresa e trasferimento d’azienda, cit., 360 ss., il quale è dell’avviso addirittura che si tratti di un mandato con rappresentanza, e cioè che “la società madre agisca in rappresentanza della società controllata”.

   (11) Similmente, con riferimento alle convenzioni talora stipulate nell’ambito dei gruppi per la gestione accentrata della tesoreria, A. DACCÒ, L’accentramento della tesoreria nei gruppi di società, Giuffrè, Milano, 2002.

   (12) Verso questa configurazione giuridica del rapporto inclina ad esempio G. MAUTONE, Lo svolgimento delle attività di amministrazione del personale da parte della capogruppo o dei consorzi, cit., 228-229.

   (13) Cfr. G. MAUTONE, Lo svolgimento delle attività di amministrazione del personale ecc., cit., 229. Ad avviso di questo autore (op. cit., 230-231), peraltro, il principio secondo cui la responsabilità del datore di lavoro non viene meno per effetto della “esternalizzazione” dell’attività di amministrazione del personale dipendente, accentrata nella capogruppo o nel consorzio ovvero in una delle imprese del gruppo o del consorzio, non vale ad escludere del tutto la possibilità di ricorrere, anche in questo campo (come già, ad esempio, in quello degli adempimenti relativi alla sicurezza sul lavoro) all’istituto della “delega di funzioni”: istituto la cui applicazione produce un’efficacia esimente (dalla responsabilità penale per le violazioni o le omissioni) a favore del soggetto che, in assenza di detta delega, ne sarebbe gravato.

   (14) Cfr. Cass. sez. lav., 14 novembre 2005, n. 22927.

   (15) Cfr. ad esempio Cass., sez. lav., 24 marzo 2003, n. 4274, in RIDL, 2003, II, 740; Cass. sez. lav., 6 aprile 2004, n. 6707, in Foro it. Rep., 2004, voce Lavoro (rapporto di), n. 1599; nella giurisprudenza di merito, vedi ad esempio Trib. Milano, 7 giugno 2001, in Orient. giur. lav., 2001, I, 677; Trib. Genova, 19 aprile 2001, in Riv. giur. lav., 2002, II, 295.

   (16) Cfr. ancora Cass. sez. lav., n. 22927/2005, cit.

Top

Home Page

 

dircomm.it
Rivista diretta da Giovanni Cabras e Paolo Ferro-Luzzi